Tiziano Rossi (Milano, 1935) è un poeta italiano. Figlio del pittore lombardo Vanni Rossi, ha lavorato a lungo nell'ambiente dell'editoria e ha collaborato alle principali riviste letterarie. Poeta appartenente alla cosiddetta linea lombarda, dà luogo, nelle sue numerose raccolte, a una poesia " impegnata a difendere la continuità di un'esperienza umana semplice e autentica, nel grigio orizzonte della civiltà urbana e industriale" Ha curato (con Ermanno Krumm) l'antologia Poesia italiana del Novecento, con prefazione di Mario Luzi (Milano, Skira, 1995).
Opere principali
La talpa imperfetta, Milano, Mondadori, 1968
Dallo sdrucciolare al rialzarsi, Milano, Guanda, 1976
Miele e no, Milano, Garzanti, 1988
Il movimento dell'adagio, Milano, Garzanti, 1993
Pare che il Paradiso, Milano, Garzanti, 1998
Gente di corsa, Milano, Garzanti, 2000
Tutte le poesie (1963-2000), Milano, Garzanti, 2003
Cronaca perduta, Milano, Mondadori, 2006
Faccende laterali, Milano, Garzanti, 2009
Spigoli del sonno, Milano, Mursia, 2012
SCOIATTOLO
Tu mansueto destino, camminante fortuna,
stelo piegato nelle guerre e raddrizzato,
inciampo che non cascava, sorriso che mai
non naufragava,
aiutami, papà.
Tu basco, pipetta e via andare
contento del colore di una pera,
tu e le tue tinte così azzurre sulla malta,
fatto di carezze discrete sulla malta, di malta,
di cavernose locande, e canoniche in quel gelo,
di sandali svelti e pulitezza,
pittore scoiattolo, lontano, impicciolito,
spoglia passione senza cruccio,
nonnulla che intorno aleggiava.
Adesso perlustro il terreno, la più scarna
tua Lombardia,
a cercare i granelli di riso che a cento
piano piano hai lasciato cadere,
tu Pollicino, e senza neanche sapere:
mio arrovellato inseguimento.
STANZA
Quatte le nevi si avvicinavano
e rovente la stufa nell’angolo bolliva,
tua madre il violino sognante suonava,
tuo padre – che tutto ammirava – a quelle belle
arance sulla tavola esclamava: “che rosso!”.
E c’era lo zio Pino così grosso che ridendo
nel corridoio cascava, e più non si levava;
e tu chino su storti disegni, i pensierini
di gennaio o i re di Francia. Era
in questa maniera che combaciava la sera.
Pulita miniatura di una stanza e
da non disistimare,
perché la bellezza viene anche da distanza;
e ciascuno – se tu guardi – è ancora là
come pupazzo di stoffa stupito
nella sua discreta eternità.
Caro nonno, che di me nipote
più non ti ricordi (sono
venuto al mondo dopo il Trentaquattro),
che mi dici figliolo o pressappoco
nel tuo scuro farnètico e gli sbagli, e
parli appena di trincee e di fuoco.
Ecco – la vedi? – questa è la trapunta,
così si chiama, e adesso fa’ attenzione
a come la federa s’apre e s’infila. O ancora
tu t’imbuchi là a Nervesa (la battaglia
sotto le troppo sue bombe) o a Doberdò
nel fumo stranita e caduta?
Di tanto si è ritratta la tua vita
tutta in un puntino, per fare resistenza:
che difesa scarnita in questo tempo
sempre di ghiacci, di afflitti letarghi;
ma tu, di certo, hai cominciato nello stento
un’altra specie di combattimento
da qualche spelata dolina…
E il colloquio è finito, radunare gli straccetti.
ZIO
Qui bene si staglia in due fotografie
dritto su un prato secco,
e somigliava a uno spago, bisognoso di nulla.
Si spera che sereno sia arrivato
ad altre solitudini,
porgendo l’orecchio a quello che non c’è:
mio zio col cappello, che poco lavorava
e gli piaceva solamente la musica e
con uno strumento faceva dolci suoni.
Ora rilucono di più le sue manie:
teneva un elenco dei genetlìaci, seguiva
notturno i lavori tranviari,
spesso si intruppava con dei cani.
La sua storia malcerta qui finisce
(sai le persone, isole che camminano)
e quale evviva potremmo gridargli
noi, venuti al tempo di cose mondiali,
di stirpi in smisurato espatrio.
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