giovedì 29 maggio 2025

SISSA Giancarlo (1961 - viv.)

fotografia di Daniele Ferroni

Giancarlo Sissa è nato a Mantova nel 1961. Vive a Bologna. Come poeta ha pubblicato nel 1997 Laureola (Book Editore), nel 1998 Prima della tac e altre poesie (Marcos y Marcos), nel 2002 Il mestiere dell’educatore (Book Editore),  nel 2004 Manuale d’insonnia (Aragno), nel 2008 Il bambino perfetto (Manni), nel 2015 Autoritratto (poesie 1990-2015) (italic/pequod) e Persona minore (qudulibri), nel 2020 Archivio del Padre (MC edizioni).
E’ presente in diverse antologie, fra le più recenti: I volti delle parole (FondazioneTitoBalestra onlus, fotografie di Daniele Ferroni, prefazione di Sebastiano Vassalli, 2014), Sulla scia dei piovaschi – poeti italiani tra due millenni (Archinto, 2016),  Centrale di Transito (ceci n’est pas une anthologie) (Giulio Perrone Editore, 2016), Officine della Poesia 1. Bologna (Kurumuny Editore, 2018), Sospeso respiro – Poesia di pandemia (Moretti & Vitali, 2020) a cura di Gabrio Vitali, Distanze obliterate – Generazioni di poesie sulla rete (puntoacapo Editore, 2021).
Dalla collaborazione con il fotografo Daniele Ferroni sono nati nel 2019 L’ultimo ballerino dell’aia con prefazione di Giampiero Neri (Edizioni Lumacagolosa) e nel 2020 Lentezza e silenzio e Il silenzio (Edizioni Pulcinoelefante). Del 2019 è la plaquette Il lupo (Babbomorto Editore), del 2022 è Frontiera (Babbomorto Editore, 2022).
Le sue poesie sono tradotte in diverse lingue europee.
Per anni ha prestato opera di “diarista e narratore in scena” per il Teatro delle Ariette e nell’ambito del progetto teatrale “Rosaspina, il tempo del sogno” di Alessandra Gabriela Baldoni.


(con lo scialle nero)

Con lo scialle nero
sulle spalle, quel velo,
tre chicchi di riso
tre passi di danza
oltre la nebbia che sale dal fosso
il prato afferrato alla zolla
e il cane bagnato, senza padrone,
poi il ferro del treno, buio e lontano
una menzogna, qualche chicco di riso
e addormentata nel sacco la scorta di grano;
un pretesto e sorridi
con le scarpe infangate,
sulle assi stese per ponte
è venuta la notte dagli odori
di finocchio e di limo
e quel velo non dorme
che pensa la città polverosa,
in realtà, qui è la nebbia che ondeggia
lungo il serpente dei fossi
e i treni non fischiano
o almeno mi sembra
e tu, lo confessi, non dormi
da tempo, quel velo
tre chicchi di riso
tre passi di danza
e la lampada spenta;
poi esci nei campi
con lo scialle legato sui fianchi
sulle spalle curvate quel velo,
e la musica sale e non disturba nessuno,
tre passi di danza
e tre chicchi di riso

(da “Quaderno Bolognese” 1992)


Pont Neuf

E cosa importa si porti vino
a un tavolo dove non se ne beve
solo lettere scriviamo e malaccorte
ma vere come il bere del mattino
o nebbia la nebbia che si porta
altrove le parole - ma lo fa piano -
come a notte la tua mano cioè
quel posto dove riposo e amo

e solo lettere scriviamo e malaccorte
- o notte - ma le scriviamo forte

così a lungo io t'ho aspettata
fino al che saremo un'altra cosa
o quella semplice che non sappiamo
- carezza senza morte - sul Pont Neuf
la luce nella neve era rosa. 

(da “Laureola” 1997)


(posso giocare a calcio)

Posso giocare a calcio
per ore con i bambini
e sentire quasi amore
per lo sgambetto per la finta
o il tiro a rete persino
per il loro afrore
e resistere alla sete
urlare torna, fallo, marca,
non devo spiegazioni
in fondo come loro intento
a sudare le mie tentazioni
o bere a collo dalla bottiglia
appena riempita alla fontana
ma solo a partita finita,
posso togliermi la camicia
e inginocchiarmi sul pavimento
a spingere una automobilina
su una pista di cartone
inventare una stupida canzone
e sentirmi contento
o aspettare la merenda
alzare il dito ammirare
sfinito il caso della pallina
da ping pong in equilibrio
sul dizionario di francese
placare risse, asciugare offese
recuperare dal bidone
il quaderno di matematica
fare finta di capirne d’informatica
sentire quando il dolore
si fa lato scosceso della realtà
guardarli in faccia con lealtà
ascoltare le madri, stringere
la mano ai padri ogni volta
stupito di non avere mai capito
perché se mi sento vivo io
con i loro ragazzi loro
debbano poi lamentarsi sempre
di mille cazzi

(da “Il mestiere dell’educatore” 2002)


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