Giorgos Seferis, pseudonimo di Georgios Seferiadis (Smirne, 13 marzo 1900, 29 febbraio secondo il calendario giuliano – Atene, 20 settembre 1971) è stato un poeta, saggista e diplomatico greco, premio Nobel per la letteratura nel 1963.
È considerato uno dei maggiori poeti greci del novecento, insieme a Odysseas Elytīs, Ghiannis Ritsos e Konstantinos Kavafis. Nel 1963 è stato insignito del premio Nobel per la letteratura.
Studiò Giurisprudenza a Parigi dove seguì il padre, noto giurista e letterato. È il 1922 quando con la "catastrofe dell'Asia Minore" svanisce ogni sogno di potenza ellenica. Quel disastro incise profondamente nell'animo del giovane, che in seguito avrebbe parlato nella sua poesia di popoli e civiltà in esilio.
Ritornò ad Atene. Entrò nel corpo diplomatico. Nel 1941 seguì la sorte del governo greco al Cairo. Aveva avuto a Parigi intense relazioni nell'ambiente artistico.
A Londra si incontrò con la poesia di Eliot e con autori francesi (da Mallarmé a Valéry) che, anche attraverso le traduzioni da lui realizzate, lo aiutarono nella sua ricerca. Le altre fonti di ispirazione, greche antiche, elleniche e moderne, furono perlopiù della sua terra, a cominciare da Omero (evocato nella Svolta, nella Leggenda con la riproposizione di una Odissea in miniatura, e nella Lettera sul Tordo), per continuare con Sofocle (ripreso nel Tordo) ed Erodoto (aleggiante nelle Memorie). Non mancano gli accostamenti alle liriche di Kalvos, soprattutto per il linguaggio, e a quelle di Kavafis.
Soggiornò anche in Albania, nel Nord Africa e in Medio Oriente.
Fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1963.
Nel 1969 Seferis prese posizione pubblicamente e duramente contro la Dittatura dei colonnelli in Grecia. Anche il suo stesso funerale, il 20 settembre 1971, venne trasformato in una massiccia dimostrazione contro il governo militare.
Alcuni suoi versi, come ad esempio il Rifiuto, sono stati musicati da Mikīs Theodōrakīs.
Opere di poesia
Svolta (1931)
La cisterna (1932)
Leggenda, ed. Katalìa (1935)
Gimnopedìa, Lettere nuove (1936)
Quaderno d'esercizi 1928-1937 (1940)
Giornale di bordo I (1940)
Giornale di bordo II (1944)
Il tordo, ed. Ikaros (1947)
Trad. di T.S.Eliot The waste land e altre poesie, ed. Ikaros (1949)
Giornale di bordo III (1955)
Poesie, ed. Ikaros (1961)
Tre poesie segrete (1966)
Note per una settimana (1968)
Gatte di San Nicola (1969)
Traduzioni in italiano
Poesie, traduzione, scelta e introduzione di Filippo Maria Pontani, Milano, Arnoldo Mondadori, 1963
Le poesie, trad. Nicola Crocetti, intr. Nicola Gardini, Milano, Crocetti, 2017
HO LASCIATO
Ho lasciato passare una fiumana
fra le mie dita
senza bere una stilla: m’accoro….
Naufrago nella pietra
Un pino basso sulla terra rossa,
l’unica compagnia.
Tutto che amai s’è perso con le case
che l’altra estate erano nuove, e sono
dirupate nel vento dell’autunno.
ALLA MANIERA DI G.S.
Dovunque viaggio la Grecia m’accora.
Al Pelio fra i castagni la camicia di Nesso
sgusciava tra le foglie per fare viluppo al mio corpo,
mentre salivo l’erta e mi seguiva il mare
salendo anch’esso come mercurio di termometro
fin che trovammo l’acqua alla montagna.
A Santorino, come sfioravo isole naufraghe
e udivo chissà dove tra le pomici un flauto,
inchiodò la mia mano al discollato
una freccia vibrata d’un tratto
dal limitare d’una giovinezza
spenta. A Micene sollevai i macigni e i tesori degli Atridi
e mi giacqui con essi all’albergo «Belle Hélène»;
dileguarono all’alba, quando garrì Cassandra
con un gallo sospeso al collo nero.
A Spezze a Poro a Mìcono
tutto lo strazio delle barcarole.
Che vogliono costoro che si credono
di trovarsi ad Atene, al Pireo?
Uno di loro viene da Salamina e chiede all’altro se
«viene dalla Concordia»
«No da piazza Statuto» risponde compiaciuto
l’altro: «ho incontrato Gianni, m’ha pagato un gelato».
Intanto la Grecia viaggia.
Noi non sappiamo nulla, non sappiamo d’essere tutti, tutti
marittimi in disarmo,
non sappiamo l’amaro del porto
quando tutte le navi sono in viaggio.
Ci burliamo di quelli che lo sentono.
Strana gente che crede di trovarsi nell’Attica
E non è in nessun posto:
acquistano confetti per le nozze
hanno «lozioni per capelli», si fanno
fotografare,
come l’uomo che ho visto oggi seduto
su un fondale di fiori e piccioni:
si lasciava spianare dalla mano di un vecchio fotografo le rughe
lasciate sul suo viso
da tutti i volatili del cielo.
Intanto la Grecia viaggia, viaggia sempre
e se «fiorir vediamo il mare Egeo di morti»,
sono quelli che vollero prendere la grande nave a nuoto,
quelli stanchi d’attendere le navi che non salpano,
l’ELSA, l’AMBRACICO, la SAMOTRACE.
Fischiano adesso le navi che fa sera al Pireo,
fischiano fischiano sempre, ma non si muove argano
e non brilla catena madida nell’estrema luce che muore,
e il capitano resta pietrificato, tutto bianco e oro.
Dovunque viaggio la Grecia m’accora:
cortine di montagne, arcipelaghi, nudo granito.
La nave che viaggia si chiama AGONIA 937.
EFESO
Parlava seduto su un marmo
simile a rovina d’antico portale:
sterminato e vuoto a destra il campo
a sinistra scendevano le ombre dal monte:
“La poesia è ovunque. La tua voce
a volte incede al suo fianco
come il delfino che per poco ti accompagna
vascello d’oro nel sole
e poi scompare. La poesia è ovunque
come le ali del vento nel vento
che per un attimo hanno sfiorato le ali del gabbiano.
Uguale e diversa dalla nostra vita, come cambia
il volto di una donna che si è spogliata,
e tuttavia rimane uguale. Lo sa
chi ha amato: alla luce degli altri
il mondo implode; ma tu ricorda
Ade e Dioniso sono la stessa cosa”.
Disse, e imboccò la grande strada
che mena al porto di un tempo, ora inghiottito
laggiú fra i giunchi. Il crepuscolo pareva
per la morte di un animale,
cosí nudo.
Ricordo ancora:
viaggiava sulle coste della Ionia, in vuote conchiglie di teatri
dove solo la lucertola striscia sull’arida pietra,
e io gli chiesi: “Un giorno torneranno a riempirsi?”
E mi rispose: “Forse, nell’ora della morte”.
E corse nell’orchestra urlando:
“Lasciatemi ascoltare mio fratello!”.
Ed era duro il silenzio attorno a noi
e non rigato nel vetro dell’azzurro.
SCIROCCO
A occidente si mescola il mare a una catena di montagne.
Ci soffia da mancina lo scirocco e c’impazza,
questo vento che spoglia della carne le ossa.
Nostra casa fra i pini e le carrube.
Grandi finestre, grandi tavoli per scrivere
le lettere che già da tanti mesi
ti scriviamo e gettiamo
nella separazione per colmarla.
Astro dell’alba, tu chinavi gli occhi
ed erano le nostre ore piú dolci
dell’olio alla ferita, piú gioconde dell’acqua
fresca al palato, placide piú che l’ala del cigno.
Era la nostra vita nel tuo palmo.
Di là dal pane amaro dell’esilio
se ristiamo la notte dinanzi al muro bianco
la tua voce s’accosta, è una speranza
di fuoco. E ancora questo vento affila
sui nostri nervi un rasoio.
Ti scriviamo ciascuno le stesse
cose, ciascuno innanzi all’altro tace
rimirando per sé lo stesso mondo,
la luce e l’ombra sopra le montagne
e te.
Chi mai ci leverà dal cuore tanta pena?
Ieri sera, tempesta; oggi di nuovo
pesa il cielo infoscato. Ora i pensieri
come gli aghi di pino ieri nella tempesta
sulla porta di casa accolti e vani
innalzano un castello che dirupa.
Qui tra questi paesi decimati, su questo
promontorio sguernito allo scirocco
con la catena di montagne innanzi, che ti cela,
chi ci calcolerà l’impegno dell’oblio?
Chi accoglierà la nostra offerta, in questa fine d’autunno.
(Traduzioni di Filippo Maria Pontani)
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