Aldo Spallicci (Santa Croce di Bertinoro, 22 novembre 1886 – Premilcuore, 14 marzo 1973) è stato un medico, poeta e politico italiano, nonché cultore e promotore dell'identità e delle tradizioni popolari della Romagna. Discendente da famiglia di piccola ma antica nobiltà originaria di Filottrano, Aldo fu figlio secondogenito di un medico condotto, Silvestro Spallicci, e di Maria Bazzocchi.
Visse gioiosamente gli anni dell'infanzia in campagna: trascorse tutto il tempo libero con i figli dei contadini che vivevano a S. Maria Nuova. Sapeva inoltre che sarebbe diventato medico, per volere del padre: quando questi morì, nel 1904, la madre si trasferì a Forlì per fornirgli un sicuro avvenire. Frequentò il Liceo Morgagni. Al liceo conobbe Maria Martinez (1885-1967), che nel 1911 diventò sua moglie e da cui, nello stesso anno, ebbe la prima figlia, Ada. L'anno seguente (1912) si laureò in Medicina e chirurgia all'Università di Bologna. Discusse la tesi con Augusto Murri. Il suo primo impiego è all'Arcispedale Sant'Anna di Ferrara. Successivamente è medico interino: dapprima a Lugo (RA), poi a Cervia ed a Sant'Alberto (Ravenna).
Mazziniano nell'animo, nel 1912 s'iscrisse al Partito Repubblicano Italiano (PRI). Nello stesso anno si arruolò tra i ranghi della spedizione di volontari italiani (la Legione Garibaldina, guidata dal figlio di Garibaldi, Ricciotti), che combatterono al fianco della Grecia contro la Turchia. Partecipò alla battaglia per la conquista della quota di Drisko (9-10-11 dicembre 1912).
Nell'agosto 1914 scoppiò la prima guerra mondiale. L'Italia scelse una posizione neutralista. Ma non Spallicci, convinto interventista, che si arruolò come medico volontario nella Legione Garibaldina. Fornì il suo apporto alle truppe che combattevano per la difesa della Francia a Nîmes. Nella primavera del 1915 nacque la secondogenita, Anna. Il 24 maggio l'Italia annunciò l'entrata in guerra contro l'Impero austriaco. Spallicci, desideroso che Trento e Trieste si riunissero alla madrepatria, si arruolò volontario; venne assegnato all'11º Reggimento fanteria "Casale", di stanza sulla linea del fronte tra il Monte Podgora e la piazzaforte di Gorizia come ufficiale medico. Prestò la propria opera in trincea e nei posti di medicazione allestiti dietro le linee di combattimento. Rimase tra i ranghi della Brigata "Casale" fino alla primavera del 1917, quando venne trasferito al XXXI Gruppo Bombarde. Si trovava nel Carso quando l'Austria-Ungheria lanciò l'offensiva di Caporetto, che determinò lo sfondamento delle linee difensive italiane e il ripiegamento sul Piave.
Successivamente Spallicci venne trasferito al 207º Reggimento della Brigata "Taro". Fu congedato con il grado di capitano. Durante il conflitto fu insignito di tre croci di guerra. Al ritorno dal fronte aprì un proprio studio medico a Forlì e, come molti forlivesi, prese una casa al mare sul litorale cervese. Nel 1919 nacque il terzo figlio, Mario. Per tutta la sua vita, Spallicci affiancò alla sua professione l'attività di divulgatore della cultura romagnola.
Nel 1920 diede vita alla rivista La Piê, che curò fino alla fine dei suoi giorni e rappresentò la sua iniziativa editoriale più importante. L'anno seguente organizzò, con B. Pergoli ed E. Rosetti, le «Esposizioni romagnole riunite» (Forlì), antesignane del Museo etnografico. Nel 1925 ottenne la libera docenza in Clinica pediatrica. A causa della sua opposizione al fascismo fu minacciato, poi arrestato (novembre 1926) e recluso nel carcere della Rocca di Forlì. La libera docenza gli fu revocata. Fu costretto a trasferirsi in domicilio coatto a Milano con la famiglia e la madre (febbraio 1927). Nel capoluogo lombardo aprì un ambulatorio (in via Monforte) e visse poveramente, ma dignitosamente, mantenendo i rapporti con gli altri "esuli" romagnoli. Nello stesso periodo scrisse sette trattati di storia della medicina, ciascuno dedicato a un autore latino. L'elenco comprende: Plauto, Marziale, Plinio il naturalista, Lucano, Orazio, Persio e Plinio il Giovane.
Nel 1941 fu inviato per alcuni mesi al confino a Mercogliano (Avellino), da dove tornò in agosto a Milano. Nel 1943 il capoluogo lombardo fu colpito dai bombardamenti alleati. Spallicci si rifugiò a Cervia-Pineta (l'odierna Milano Marittima). Qui fu arrestato e ricondotto a Milano nel carcere di San Vittore, dove rimase detenuto fino alla caduta del regime (25 luglio 1943). Liberato, dapprima partecipò alla riorganizzazione del Partito Repubblicano lombardo, poi ritornò con la famiglia nella cittadina ravennate. Nel periodo del passaggio del fronte (1944), si unì alla VIII armata britannica e pronunciò undici discorsi radiofonici (poi raccolti in volume) per incitare i romagnoli a continuare a combattere fino alla vittoria finale. Dopo la Liberazione decise di stabilirsi definitivamente a Milano Marittima[6]. Abitò dapprima in viale Gramsci, poi si trasferì in via G. Vasari, dove prese residenza in una villa cui diede il nome di Buscarola (la sterpazzola, un passeraceo che nidificava nei cespugli della stessa villa).
Aldo Spallicci fu uno dei maggiori esponenti del Partito repubblicano in Romagna. Il 2 giugno 1946 fu eletto deputato all'Assemblea Costituente per il PRI nel XIII Collegio (Bologna-Ferrara-Forlì-Ravenna). Collaborò soprattutto alla stesura del punto 5 dei Principi fondamentali (autonomie locali e decentramento amministrativo)[6]. Fu eletto senatore nella I legislatura, sempre per il PRI, nel collegio di Ravenna, e nella II legislatura nel collegio di Cesena. Durante la II Legislatura fu, assieme ad altri deputati, membro italiano dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa.
Ebbe anche incarichi governativi: per tutta la seconda legislatura (1948-1953) fu Alto commissario aggiunto per l'igiene e la sanità pubblica, collaborando alla nascita del Ministero della Sanità. Fu Sottosegretario di Stato al Turismo nel VI e VII Governo De Gasperi (1950 e 1951). Una volta cessati gli impegni politici, continuò a Cervia la professione di medico pediatra e l'attività di divulgatore e promotore della cultura romagnola. Nel 1955 inaugurò a Forlì il Giardino della flora spontanea della Romagna, da lui fatto allestire con il naturalista Pietro Zangheri. Nel 1961 decide di raccogliere la sua produzione poetica in un volume unico: esce Poesie in volgare di Romagna (sarà seguita da una nuova raccolta, Tutte le poesie in volgare di Romagna, uscita nel 1975).
Nella seconda metà degli anni cinquanta, ravvisando nella linea politica del PRI un'attrazione innaturale verso le concezioni marxiste, decise di distanziarsi dalla dirigenza del partito, affermando la propria autonomia. Nel 1964, in seguito all'espulsione dal Partito Repubblicano di Randolfo Pacciardi, lo seguì nella nuova formazione politica da lui fondata, l'Unione Democratica Nuova Repubblica. Nel 1965 ottenne la libera docenza in Storia della medicina.
Il 4 maggio 1967 morì la moglie Maria. Il 28 agosto 1972 morì anche la figlia secondogenita Anna. Spallicci si trasferì presso la primogenita Ada a Premilcuore, centro dell'Appennino forlivese.
Qui si spense il 14 marzo 1973 all'età di 87 anni. Riposa nel cimitero di Santa Maria Nuova con i suoi congiunti.
Spallicci affiancò all'attività medica un'intensa opera di divulgazione dell'idea dell'autonomia amministrativa della Romagna. Così spiegava il motivo:
«Siamo tutti italiani e la Repubblica è una ed indivisibile. La storia, la cultura, la stessa geografia ci ha, però, fatti diversi. È una opportunità da mettere a profitto nell'interesse generale del Paese responsabilizzando, nell'esercizio autogestionario, le varie popolazioni.»
Spallicci fu sempre contrario allo "stato accentrato, napoleonico" e favorevole alla "regionalizzazione". Espresse la sua posizione in sede di dibattito in Aula ed in Commissione all'Assemblea Costituente (1946-47), dove appoggiò l'istituzione di una regione romagnola. Nel suo intervento all'Assemblea Costituente del 4 giugno 1947, Spallicci si richiamò alla Romagna con questi termini:
«Forse in Italia, non insulare, non v’è altra terra meglio individuata della Romagna. La caratteristica viva e passionale del suo senso politico sempre vigile dai primi albori del Risorgimento ai giorni nostri, la fede e l’ardore dei suoi migliori […] le conferiscono un’anima tutta sua. […]
La Romagna rimane anche se si vorrà farne coll’Emilia una sola regione. E libera al vento la bandiera della sua passione per tutte le cause giuste. Passione orchestrata nel vento che trascorre su tutta la Penisola. È il suo canto» (Assemblea Costituente, seduta del 4 giugno 1947)
Spallicci intervenne spesso in difesa del patrimonio naturale (faunistico, botanico e paesaggistico) della sua terra, anche con proposte e interrogazioni parlamentari.
Per le sue battaglie politiche in favore del territorio, Spallicci è stato chiamato E' ba' dla Rumâgna (il babbo della Romagna), per la quale propose anche una bandiera.
La produzione poetica di Aldo Spallicci è stata ampia: possono essergli attribuiti quasi una ventina di titoli, dal 1908 al 1973. Sin dall'inizio sceglie di esprimersi in romagnolo, che sente la lingua più vicina agli aspetti della realtà che descrive e la più adatta ad esprimere i suoi stati d'animo. Scrive nel dialetto di Forlì, città che l'ha accolto all'età di 18 anni. Spallicci propone una nuova idea di dialetto: non più solo poesia d'occasione o ricreativa, ma poesia lirica, conferendo al romagnolo lo statuto di lingua dei sentimenti e delle emozioni.
La sua opera d'esordio è una raccolta di sonetti in forlivese (Rumâgna, 1908). I suoi temi sono la campagna, gli animali e la vita dei contadini. La sua seconda silloge poetica è I campiùn d'Furlè (1910). Il suo interesse deriva dal desiderio di «rimettere in onore le tradizioni spente o vicine a spegnersi». L'intento di Spallicci non è conservativo, cioè volto a "salvare" le usanze dei tempi passati così com'erano: al contrario desiderava rinnovarle e vivificarle. Insieme alle poesie in romagnolo, Spallicci scrive delle cante (termine romagnolo per "canzoni popolari"). Le prime vengono musicate dall'amico forlivese Cesare Martuzzi. Nascono così La Majé, Pr'e cheld, A gramadora, A trebb (primavera estate autunno inverno: è il ciclo delle stagioni). La Majè è la prima canta popolare romagnola su testo d'autore (fino ad allora le cante si tramandavano oralmente e non se ne conoscevano gli autori). Viene eseguita la prima volta a Bertinoro nel 1910.
Il mondo contadino subisce in quegli anni la forte pressione delle idee socialiste, le quali puntano a migliorare le condizioni di vita delle classi subalterne ma propongono anche di forgiare una "nuova coscienza di classe". Spallicci avverte che questo processo è destinato ad andare avanti nel tempo e perturberà l'ordine sociale esistente. A giudizio di Spallicci il socialismo intende colpire quei valori inerenti alla tradizione contadina e sostituirli con altri. Il recupero dell'identità culturale romagnola ha questo scopo: sventare questo pericolo e preservare la cultura popolare contadina. I fondatori del «Plaustro», in un primo momento, concepiscono il folclore come magazzino delle tradizioni intatte minacciate dalla modernità. In un secondo momento tentano anche un approccio diverso, volto all'invenzione o reinvenzione di attività, simboli, modi dell'identità collettiva in cui i romagnoli si potevano riconoscere. Questo secondo approccio si rivela vincente e diventa il "marchio di fabbrica" del sodalizio spallicciano.
Nasce così il fervido interesse per gli studi folclorici che accompagnerà Spallicci per tutta la vita e ne farà uno dei massimi conoscitori delle tradizioni popolari romagnol. In questo periodo Spallicci svolge le proprie ricerche etnografiche presso la Biblioteca civica di Forlì, dov'è depositato il Fondo Piancastelli; per esplorare le campagne usa la bicicletta. Nel 1912 pubblica La Cavêja dagli anëll. Per la prima volta la caveja esce dal ristretto ambito rurale ed entra a far parte del mondo letterario. È opinione degli studiosi che Spallicci sia stato il principale artefice dell'elevazione della caveja a simbolo della Romagna.
La lingua romagnola non aveva mai avuto una grafia uniforme, valida per tutte le varianti locali. Spallicci è il primo a sviluppare un sistema di grafia unificato per la scrittura del romagnolo che risponda a criteri di rigore scientifico. A Spallicci si deve anche l'ideazione del trebbo poetico. Il primo si tiene a Montemaggio di Bertinoro il 13 settembre 1914. Spallicci riprende la tradizione romagnola delle veglie notturne nelle case dei contadini, dove le famiglie trascorrevano le fredde sere invernali in compagnia di cantastorie e favolisti.
Nel 1920 esce la raccolta Al Canti, dedicata nuovamente al canto corale popolare. Spallicci scrive di suo pugno nuove cante e le fa musicare dal lughese Francesco Balilla Pratella. Il teorico del futurismo crea melodie nuove, armonizzazioni e polifonie moderne, in maniera che le nuove cante non siano copie di quelle originali, ma una loro evoluzione. Il progetto spallicciano di innestare il nuovo nel solco della tradizione darà nuova linfa alle cante romagnole, genere che, grazie anche a Spallicci viene tuttora eseguito a distanza di vari decenni dalla sua morte.
Opere di Poesia in lingua romagnola
Aldo Spallicci è il poeta romagnolo che ha composto il maggior numero di opere e nel più lungo arco di tempo (1909-1973):
Rumâgna. Cinquanta sonetti in dialetto forlivese, Forlì, Tipografia Rosetti; prefazione di Antonio Beltramelli; Faenza, Litografia Morgagni, 1909
I campiun 'd Furlè, Forlì, casa editrice S.p.r.a. 1910
La cavêja dagli anëll; Genova, Ed. Formiggini, 1912
La Zarladòra[36], Forlì, Ed. "Il Plaustro", 1918
La Biojga. Poesie[37], Forlì, Ed. "Il Plaustro", 1919
Al Canti, 1920
È canòn drì dla seva, 1926
La Madunê. Poesie in dialetto romagnolo (raccolta), copertina, Milano, Mondadori, 1926
Fior 'd radécc, Forlì, Ed. Zanelli, 1930
A Vella Glöri, Milano, Officina grafica "Roma", 1932 (durante gli anni dell'esilio a Milano)
La Ciuzzeta. Prefazione di Attilio Momigliano, Milano, Treves, 1936 (durante gli anni dell'esilio a Milano)
È Stardacc[38] Faenza, F.lli Lega, 1939
Bisèt, Milano, Garzanti, 1949
È Sarnèr, Roma, Ed "Il Belli", 1950
Sciarpa nigra: cravatta a svolazzo, Forlì, Ed. de "La Piê", 1956
Salut a Pullè, Riccione, 14 febbraio 1960
Adess ch' l'à smess a piovar, 1960
Poesie in volgare di Romagna (raccolta), Milano, Garzanti, 1961[39]
Mintàstar, Milano, Garzanti, 1966
Cùdal, Milano, Garzanti (collana Poesia), 1969
La Pâmpna, Milano, Garzanti, 1971
Tutte le poesie in volgare di Romagna (raccolta), Milano Garzanti, 1975 (postumo)
Zìrvia
E s’a j artoran a vent’enn indrì
E a stagh da scolt e a guêrd,
a sent cantêe e’ sangv in gran argì
ch’a so incora un bastêrd.
E a m’veggh in bicicleta, int l’eria nova
D’una prema matena
Quand ch’a m’toi so da Santa Marinôva
Par avnir a marena.
E par la calartina drì de’ foss
Culor de’ zil lavê
U j è i fiur di radecc ch’i m’ven adòss
Zà bel’e spalanché.
Pu e’ vent dla lerga che camena ariêl
Tra fiurid ad spagnêr
Pu la strê senza seva, e’ ris, e’ sel
E e’ gran rispir de’ mêr.
Zìrvia; al burcël toti cverti ‘d pigulôn
E la reda ‘d ‘na blanza
Ch’la insogna pr’e’ canêl una stason
D’una gran abundanza;
dal banchet af fis-cin pina la piazza
tra senta ad tot al tër
e una bela funtana a quàtar brazza
cun l’aqua vch’la sa ‘d fër.
La tòmbula a palazz da cavé incu
E int e’ balcon un nòmar,
drì a la pscarì d’fun ‘d brasùl, e pu
una gran meda ad còmar.
E e’ vialon cun e’ vent in êlt che canta
Che conla al foi e i nid,
e disët enn chi passa e ch’i s’n in vanta
e in chêv e’ mêr che rid.
CERVIA
(E se ritorno a vent’anni addietro
e sto in ascolto e guardo,
mi sento cantare il sangue in grande energia
che sono ancora un ragazzo.
E mi vedo in bicicletta nell’aria nuova
d’una prima mattina quando mi prendo da Santa Marianova
per venire a marina.
E lungo il sentiero accanto al fosso,
colore del cielo lavato,
ci sono i fiori dei radicchi che mi vengono addosso
già bell’e spalancati.
Poi il vento della larga che cammina alla regale
tra fiorite di erba spagna,
poi la strada senza siepe, la risaia, la salina
e il gran respiro del mare.
Cervia, le burchielle tutte coperte di catrame
e la rete d’una bilancia
che sogna lungo il canale una stagione
d’una grande abbondanza;
delle bancarelle di fischietti piena la piazza
e una bella fontana a quattro braccia
con l’acqua che sa di ferro.
La tombola a palazzo da cavare oggi
e sul balcone un numero,
vicino alla pescheria il profumo di braciole, e poi
una gran catasta di cocomeri.
E il vialone con il vento in alto che canta,
che culla le foglie ed i nidi
e diciassette anni che passano e se ne vantano
e in cavo il mare che ride)
(E se ritorno a vent’anni addietro
e sto in ascolto e guardo,
mi sento cantare il sangue in grande energia
che sono ancora un ragazzo.
E mi vedo in bicicletta nell’aria nuova
d’una prima mattina quando mi prendo da Santa Marianova
per venire a marina.
E lungo il sentiero accanto al fosso,
colore del cielo lavato,
ci sono i fiori dei radicchi che mi vengono addosso
già bell’e spalancati.
Poi il vento della larga che cammina alla regale
tra fiorite di erba spagna,
poi la strada senza siepe, la risaia, la salina
e il gran respiro del mare.
Cervia, le burchielle tutte coperte di catrame
e la rete d’una bilancia
che sogna lungo il canale una stagione
d’una grande abbondanza;
delle bancarelle di fischietti piena la piazza
e una bella fontana a quattro braccia
con l’acqua che sa di ferro.
La tombola a palazzo da cavare oggi
e sul balcone un numero,
vicino alla pescheria il profumo di braciole, e poi
una gran catasta di cocomeri.
E il vialone con il vento in alto che canta,
che culla le foglie ed i nidi
e diciassette anni che passano e se ne vantano
e in cavo il mare che ride)
***
’ Signor, fat e’ mond,e’va un po in zir
E cun San Pir e’ passa do parol;
e intant ch’j è int una presa,u i fa San Pir:
“La Rumagna t’lè fata e e’ rumagnùl?
Ui vo dla zenta sora a sti cantìr,
t’a n’vrè zà fè la mama senza e’ fiul”?
“ Me a t’e’ farò, mo l’ha dal bròt manir
e a j ho fed ch’u n’gni azova gnianca al scòl”.
E’ daset ad chelz par tèra cun un pè
E e’ faset saltè fura ilè d’impèt
E’ vigliacaz de’ rumagnul spudè.
In mang ad camisa , svidurè int e’ pèt,
un caplìn rudè com un fatòr;
“ A so qua mè, ciò, boia ded’ S…..!”
_______________________
Il Signore ,fatto il mondo,va un po in giro
e con San Pietro scambia due parole,
e mentre sono in un podere ,gli fa San Pietro:
“La Romagna l’hai fatta,e il romagnolo?
Ci vuol gente sopra questi campi ,
non vorrai mica fare la mamma senza il figlio?”
”Io te lo farò, ma ha brutte maniere,
e credo che non gli giova nemmeno la scuola”.
Dette un calcio per terra con un piede
e fece uscir fuori lì dirimpetto
il vigliaccaccio del romagnolo sputato.
In maniche di camicia, sbottonato sul petto,
un cappellaccio a ruota come un fattore;
“Sono qua io, allora, boia del S….!
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