Bonagiunta Orbicciani, chiamato anche Urbicciani, Urbiciani, Bonaggiunta degli Orbicciani, Bonagiunta da Lucca (in latino Bonagiunta Lucensis; Lucca, 1220 circa – 1290 circa), è stato un poeta italiano, esponente della scuola toscana.
Esercitò forse la professione di notaio e come poeta fu attivo nella seconda metà del XIII secolo, ispirandosi più direttamente ai modi della poesia "siciliana", mediando la sua influenza nell'ambiente toscano. Fu tra coloro che più efficacemente importarono in Toscana le forme poetiche provenzaleggianti della scuola siciliana e soprattutto quella di Jacopo da Lentini.
Come scrive Carlo Salinari: «[…] La sua importanza è tutta in questa attività di mediazione culturale, che verso la metà del secolo sposta l'asse della nostra poesia dalla corte imperiale di Palermo all'Italia centrale e pone in tal modo - sia pure inconsapevolmente - le premesse per il "dolce stil novo".»
Si può dire che egli sia rimasto più noto, nella letteratura italiana, come personaggio del Purgatorio dantesco che per la sua opera poetica: la lettura tradizionale dell'episodio del canto XXIV è che Dante, per far meglio risaltare la novità del Dolce stil novo, abbia per contrapposizione citato un rappresentante di un genere poetico precedente. Le parole "dolce stil novo" Dante le mette opportunamente sulle labbra di Bonagiunta.
Merito indubbio di Gianfranco Contini, nella splendida edizione ricciardiana del 1960, è invece di aver rivalutato la figura di Bonagiunta, mostrandolo come un protagonista delle tenzoni, le gare poetiche che coinvolgevano tutti i dotti dell'epoca.
Significative tre tenzoni:
- contro Guido Guinizelli con il sonetto Voi ch’avete mutata la maniera, in cui sembra rimproverargli di avere cambiato lo stile delle liriche amorose introducendo un eccessivo intellettualismo e troppi riferimenti filosofici, rendendo la parola poetica oscura e di difficile comprensione ("sottigliansa", cioè speculazione filosofica). A Bonaggiunta risponderà il poeta bolognese con il sonetto Omo ch’è saggio non corre leggero;
- contro un anonimo (si è tentato di riconoscere in questi Monte Andrea oppure Guittone d'Arezzo) che in un dotto sonetto cita raffinati poeti provenzali: Peire Vidal e Osmondo (forse da Verona); la risposta di Bonagiunta è di estremo virtuosismo tecnico: giocato con rime equivoche (figura retorica che consiste nel ripetere lo stesso termine in sede di rima) e rime interne;
- contro un giudice, Messer Gonella, cui risponde Bonodico notaio di Lucca, un sonetto di Bonagiunta e un'ulteriore replica di Messer Gonella e, infine, un ulteriore sonetto di controreplica di Bonagiunta.
Inteso in questo senso di scontro poetico, la scelta di Dante di eleggerlo ad antagonista della poetica propria e di quella della sua scuola non ha un significato riduttivo, ma di riconoscimento del valore dialettico del poeta lucchese.
La produzione superstite di Bonagiunta conta 37 componimenti: 18 sonetti certi e uno attribuito, 11 canzoni, 2 discordi, 5 ballate.
L'ultima edizione critica commentata delle Rime di Bonagiunta Orbicciani da Lucca, è stata pubblicata da Aldo Menichetti, nel 2012, per le Edizioni del Galluzzo di Firenze.
III
Se il poeta è rimeritato del suo affetto,
sarà il più felice tra gli amanti.
S’eo sono innamorato e duro pene
secondo che m’avene — sia meritato.
Se meritato son per bene amare
o per servir l’amore interamente,
infra gli amanti già non avrò pare
d’aver gio* con disio interamente,
ch’eo sono messo tutto in voler fare
ciò che pertene a signor bon servente;
und’eo spero non essere obliato.
Se m’obliaste già non fora degno
voi, cui tant’amo e cui servo m’apello;
che serviragio voi el cor ve pegno:
partir non pò da voi, tanto gli è bello.
E tanto li agradisce il vostro regno
che mai da voi partire non de’ elio,
non fosse da la morte a voi furato.
Gioia aspetto da voi e voi la chiero;
merzé, or non vi piaccia mia finita,
ch’eo fui, sono e sempre d’esser spero
vostro servente tanto ch’avrò vita.
E se tardate più, saciate eo pero,
tant’ho nel core affanno, pena e vita:
non pò, se no da voi, esser sanato.
BALLATE
I
Non si vantino le proprie virtù.
Dio disperda chi male amministra la giustizia.
Molto si fa biasmare
chi loda lo su’ afare
e poi torn’al niente.
E molto più disvia
e cade in gran falenza
chi usa pur folia
e non ha canoscenza:
qual om ha più balia
più de’ aver soferenza
per piacer a la gente.
Molti son che no sanno
ben dir, né operare:
sed han buon prescio un anno,
non è da curuciare;
che tutto torna a danno.
Falso prescio durare
non pora lungamente.
Qual om è laldatore
de lo su’ fatto stesse
non ha ben gran valore
né ben ferme prodesse;
ma l’uom, ch’è di buon cuore,
tace le su’ arditesse
ed ède più piacente.
Valor no sta celato,
né prescio, né prodessa,
né omo inamorato,
né ben grand’alegressa:
come ’l fochio lumato,quando la fiam’ha messa,
si mossa grandemente.
Strugga Dio li noiosi,
falsi iscanoscienti,
che viven odiosi
di que’ che son piacenti;
dinanzi so’ amorosi,
dirieto son pungenti,
com’aspido serpente.
Sieden su per li banchi
facendo lor consiglio:
dei driti fanno manchi,
del nero bianco giglio,
e nonde sono istanchi;
und’e’ mi meraviglio
come Dio lo consente.
Balata, in cortesia,
ad onta de’ noiosi,
saluta tuttavia,
conforta li amorosi:
e di’ lor ch’ancor fia
li lor bon cor gioiosi
seranno tostamente.
VIII
Lodi dell'amore: prega madonna che lo voglia amare.
Uno giorno aventuroso,
pensando in la mia mente
com’amor m’avea inalzato,
i’ stava com’om dottoso,
da che meritatamente
non serve a chi l’ha onorato.
Però volsi cantare
lo certo affinamento,
perché l’amor più flore
e luce e sta ’n vigore
di tutto piacimento,
gioia tene in talento
e fa ogn’atro presio sormontare.
Montasi ogne stasione,
però fronde e fiore e frutta,
l’afinata gioi’ d’amore;
per questa sola rasione
a lui è data e condutta
ogne cosa, e’ ha sentore:
si come par, li auselli
chiaman sua signoria
tra lor divisamente
tanto pietosamente,
e l’amorosa via
commenda tuttavia
perché comune volse usar con elli.
Donqua, la comune usanza
ha l’amor così agradito,
che da tutti ’l fa laudare.
Gentil donna, pietanza
inver’me, che so’ ismarito
e tempesto più che mare.
Non guardate in me, fina;
ch’eo vi son servidore:
tragete simiglianza
da l’amorosa usanza,
che da piciolo onore
ingrandisce talore,
e ’l ben possente a la stasion dichina.
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