Eugenio Grandinetti
POESIE
a cura di Ennio Abate
con la collaborazione di Laura Cantelmo, Rosa De Meo e Anna Maria Grandinetti
prefazione di Paolo Giovannetti
Zacinto edizioni
2025
pp. 208, euro 18
ISBN 9788831323734
Prefazione
di Paolo Giovannetti
In una poesia piuttosto recente (risale al 2014) di questo libro il lettore si trova di fronte a una confessione esplicita:
Non ci furono
forse nella mia vita le occasioni
per emergere sugli altri, per essere
un’isola sul mare o la vetta
in una catena di montagne. Ma non era
questa la cosa che cercavo: volevo
essere uguale agli altri, soddisfatto
d’essere, e solamente teso
a ricercare che la vita fosse
la migliore possibile per tutti.
Ma era forse debole il volere
e la voce era fievole e si perse
inascoltata in mezzo ad un deserto.
Chi ha conosciuto anche superficialmente (questo è il mio caso) Eugenio Grandinetti non fatica a ravvisare qui l’autore “reale”, l’uomo in carne e ossa. Poche figure della poesia italiana contemporanea si sono mantenute appartate quanto lui. Privo di ogni evidente ambizione letteraria, lontano da gruppi, riviste, salotti, non sostenuto da editori nemmeno minimi, la sua parabola letteraria si è svolta tutta nell’ombra, sostenuta da un piccolo manipolo di amici e da qualche bolla della Rete (in particolare i blog “Moltinpoesia” e “Poliscritture”). Eppure, nel suo essere uomo modesto e defilato, poeta che non ha cercato la notorietà e che il successo non ha mai nemmeno sfiorato, brilla qualcosa che va al di là di un semplice esercizio espressivo o stilistico e si connette a un destino comune, a una dimensione tutt’altro che privata e solipsistica.
Tre solerti amici e la sorella di Eugenio Grandinetti offrono qui una scelta di natura tematica traendola da una produzione dispersa, poco databile, e al momento non sufficientemente esplorata. Si noterà, tuttavia, che la maggior parte dei testi reca date successive all’anno 2000, e anzi si concentra nel periodo che va dal 2010 in poi, a restituire insomma la produzione di un poeta ottantenne. Nato nel 1931, Grandinetti è morto nel 2019. È una soluzione, quella della partizione tematica, che appare produttiva e funzionale alla comprensione delle molte facce dell’autore. In particolare, deve essere apprezzato il crescendo ideale scandito dalle prime tre parti, con l’appendice della quarta dedicata al viaggio ma fortemente connessa alle precedenti. Si trascorre dall’osservazione della vita animale alle considerazioni su ciò che la natura suggerisce a proposito del cosmo, fino a considerazioni intorno all’esistenza, secondo i modi di una poesia che non possiamo non definire filosofica. Ed è chiaro che il nume tutelare di Grandinetti è Giacomo Leopardi – il Leopardi della Ginestra, per intenderci, il più utopisticamente politico – anche se suggerimenti gli vengono da molte altre parti: da Pascoli, sicuramente – soprattutto, ma non solo, per la particolare acribia lessicale, zoologica, botanica, persino micologica – e in misura minore da Franco Fortini, per il desiderio di allegorizzare le vicissitudini della vita biologica. Ma non va dimenticato Montale, spesso presente quando sono colti materialisticamente certi sommovimenti della vita (i «filari di formiche», la «gazzarra dei passeri», «Stride il meriggio a un canto di cicale», ecc.). Ed è abbastanza evidente che aspetti della cultura classica di Eugenio danno luogo a un pedale stilistico e concettuale ben udibile, anche in contesti non “classicistici” (quelli della sesta parte della raccolta). Spicca prevedibilmente un certo Lucrezio, cosmico e a tratti visionario.
Il profluvio di annotazioni puntuali tramate di afidi, pieridi, cerambici, fasmidi, ornitogalli, strigidi, ma anche di carici, streppai, «cortinari cinerei […], agarici / dai gambi esili […] polipori / squamosi» – questo gioioso scialo di puntigliosità lessicali (sostenuto magari da forme colte come dissono, intermine, grumulo, diluculo, desillabare, inforrarsi…) – dunque, è messo al servizio di una riflessione che verte soprattutto sul tempo, la storia, il ciclo della vita. Due sono i punti fondamentali – mi sembra – del pensiero di Grandinetti. Il primo è di origine in senso lato leopardiana, in quanto concerne la necessaria colleganza degli uomini e delle donne in una comunità solidale: che però (e qui sta la differenza da Leopardi) sia in grado di inverare alcune promesse della Natura e, almeno in parte, della Storia. Entrambe, infatti, sembrano incoraggiare una vita in cui i comportamenti del singolo trovino riscontro nell’armonia del tutto. Il secondo punto – che finisce per mettere in crisi il primo, ma non per negarlo, credo – è l’impossibile sincronizzazione dei tempi che attraversano il vivente. Si leggano questi bei versi sulla vita degli alberi:
Ed è diverso
dal nostro il tempo degli alberi. Ha la misura
del variar delle fronde, dell’accrescersi
lento di anelli al tronco, e del respiro
alterno di notte e giorno. Gli alberi
guardano alla nostra vita con sufficienza,
non ci considerano se non come cerambici,
minimi e indistinguibili
come noi consideriamo i microbi
nel loro rapido morire, benché pure
possano ucciderci.
Più drammaticamente, in altra poesia (ma siamo sempre dentro a un bosco):
Pure
il bosco è uguale nella sua memoria
diversa dalla nostra, ché ogni cosa
che vive non è immota ed immutabile,
ma ha vicende di accrescimenti,
di morti e di rinascite, solo che
ogni cosa ha il suo tempo che è diverso
da quello delle altre cose che non
riescono
a misurare che col proprio metro
sì che a noi pare
fugace la vita dell’effimera
ma fuori del nostro metro ed immutabile
la vita delle rocce e delle stelle.
Sono rilievi decisivi, che suggeriscono considerazioni preziose oggi, in piena riflessione sull’antropocene. La promesse de bonheur che viene dai cicli naturali è revocata in dubbio dall’impossibilità di armonizzare tempi umani e tempi della Terra, dalla resistenza della Natura all’umano, anzi da una forma di estraneità. Il poeta prende atto di un avvicendarsi cosmico, in sé buono, ma si rende anche conto che la nostra esistenza di individui mai riuscirà a realizzare qualcosa di simile, probabilmente neppure nel momento in cui una rinnovata organizzazione di vita, un cambiamento sociale radicale (parafraso Leopardi) fra sé confederasse tutti gli umani e tutti li abbracciasse con vero amore. Nemmeno allora sarebbe possibile conseguire un pieno equilibrio fra i tempi e cicli della Storia e del Cosmo, e qualcosa continuerebbe a inceppare il meccanismo della sperata palingenesi.
A limitare gli homines sapientes, sembra essere soprattutto l’individualismo, che sempre li travolge e che una società ingiusta rafforza. In questo senso, la partizione tematica qui adottata offre occasioni preziose: la quinta e la sesta sezione, che guardano alla dimensione di ciò che alla storia sfugge (il mondo contadino della Calabria e la classicità), non forniscono una vera alternativa a quanto sin qui abbiamo visto. Si legga cosa arriva a scrivere Grandinetti a proposito della nozione di speranza, in relazione appunto alla vita del, e nel, “suo” paese:
Ma la speranza è come la cedracca
che rattoppa di verde qualche strappo
sul muro,
e s’attacca all’intonaco e lo scrosta
e apre altre crepe, e sbreccia,
e sconnette altre pietre
e le distacca, fino a che non resti
altro che un crollo e una maceria.
Non parleremo per questo di nichilismo, certo, se non altro perché l’umanista impenitente e leopardiano che Grandinetti è stato non ce lo consentirebbe. Ma certo il suo agire da poeta lirico come pochi altri lo sono stati comportava in lui un assiduo confronto con un’alterità nemica, meschina, solo in parte riconducibile alla storia. Conviene soffermarsi un attimo su quest’ultimo punto. Il verso di Grandinetti esibisce virtù formali antiche che un po’ lasciano stupiti. Il suo leopardismo (e forse anche foscolismo) gli consente di modulare un endecasillabo “novecentesco” – non privo, cioè, di organiche infrazioni – che si nutre della sapienza antica dell’enjambement e degli slarghi del polisindeto. Per dire:
Tutti siamo
materia indefinita, come il fiume
che acquista identità e si denomina
soltanto dalle sponde entro cui scorre,
e la duplice elica che si svolge
e si duplica e ancora si riavvolge
è quella che assimila alla nostra
la materia che era d’altri corpi
e tornerà molecola indistinta
a farsi materia d’altri corpi.
Il tutto indefinito, la materia
indistinta ma pure disponibile
ad ogni mutamento è il solo
essere eterno e indeperibile
[…].
Tutto ciò gli consente di produrre alcune perle liriche pressoché perfette, come per esempio gli accade (lo abbiamo visto) quando al centro della sua attenzione c’è la vita del bosco.
L’ultima sezione della raccolta è quella politica, pubblica, esplicitamente sociale. Ed è una definizione, questa, molto limitante; perché è evidente che anche nelle pieghe dell’autobiografismo Grandinetti cerca sempre di parlare a nome di tutti, pur nella consapevolezza dell’egoismo che anche lui avvince e condiziona. Il punto vero è un altro, e forse aiuta a capire meglio l’impegno profondo del poeta. Diciamo che in non poche occasioni (ne fanno fede i versi citati proprio all’inizio di questa nota) il poeta dismette la sua postura primaria e sceglie toni conversevoli e andanti, stridenti con il contesto. Come se certi testi fossero “d’occasione”. Si arriva a riscoprire la rima, con intenti evidentemente parodici:
Che bella parola “democrazia”
voglio gridarla in mezzo alla via,
voglio diffonderla in tutta la terra
anche a costo di fare la guerra.
Fare la guerra non è tanto male
se si persegue il grande ideale
di assicurare l’egemonia
ai finanzieri di casa mia.
Ma forse anche questo è sintomo del radicamento antico della poesia di Grandinetti che, un po’ carduccianamente, può farsi all’improvviso giambico e cambiare di registro. Non ce ne lamenteremo, certamente. Rimpiangiamo solo che un autore del genere non abbia trovato in vita il cenacolo, il gruppo, le condizioni (anche editoriali) per un confronto che gli permettesse di indirizzare nel modo migliore il talento che indubbiamente possedeva. E di cui ora possiamo apprezzare molti risultati con ogni evidenza riusciti.
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