Sergio Corazzini (Roma, 6 febbraio 1886 – Roma, 17 giugno 1907) è stato un poeta italiano appartenente al crepuscolarismo romano del primo decennio del Novecento.
Il nonno di Sergio, Filippo Corazzini (sposato con Albina Pera), fu avvocato e funzionario della Dataria Pontificia. In qualità di avvocato, difese il cardinal Lorenzo Nina, segretario di Stato Pontificio sotto papa Leone XIII, a seguito di rivalse di alcuni privati su alcuni beni confiscati dallo Stato all'ex collegio Sistino. Secondo il libro biografico su Sergio Corazzini di Filippo Donini, si disse che i Corazzini fossero imparentati (però non si hanno documenti a tal riguardo e il poeta pare non averne fatto mai menzione) con l'eroe carducciano Eduardo Corazzini, originario di Pieve Santo Stefano, morto per le ferite riportate durante la campagna romana nel 1867.
Per questo la famiglia Corazzini, che si dice romana e papalina, in realtà potrebbe avere origini toscane. Sergio, appartenente ad una famiglia minata dalla tubercolosi (la madre, Carolina Calamani, era cremonese), frequentò qualche anno di scuola elementare a Roma e in seguito, dal 1895 al 1898, si trasferì a Spoleto con il fratello Gualtiero e frequentò il Collegio Nazionale. Ma, a causa delle difficoltà finanziarie in cui si ritrovò la famiglia, il padre Enrico, dimessosi da impiegato al Registro della Dataria Pontificia, fu costretto a ritirare i figli dal collegio.
Sergio continuò il ginnasio a Roma, ma non poté frequentare il liceo perché dovette cercare lavoro presso una compagnia di assicurazioni, "La Prussiana", per aiutare la famiglia. La compagnia di assicurazione aveva sede in una vecchia casa in via del Corso e la stanza di Sergio era buia e triste, con una finestra ad inferriate che dava sul cortile. Si possono trovare numerosi riferimenti a questo luogo nei versi di Soliloqui di un pazzo. Il passare da una vita agiata alla povertà, dovuta alle errate speculazioni in borsa e al libertinaggio del padre, cambiò completamente le condizioni spirituali del poeta che da questo momento non ebbe certo vita felice (la madre era ammalata di tisi, il fratello Gualtiero morirà della stessa malattia, il fratello Erberto perirà in un incidente d'auto in Libia e il padre morirà in un ospizio).
Il padre, Enrico Corazzini, gestiva una tabaccheria in Corso Umberto, situata tra una gioielleria e un Caffè. Proprio quest'ultimo (il Caffè Sartoris), divenne il luogo dei primi incontri letterari di Sergio. Partecipavano quotidianamente a questo cenacolo Alfredo Tusti, Alberto Tarchiani, Gino Calza-Bini, Fausto Maria Martini, Giulio Cesare Santini, Antonello Caprino, Tito Marrone, Auro d'Alba, Enrico Brizzi, Armando De Santis, Luciano Folgore, Umberto Fracchia, Rosario Altomonte, Remo Mannoni, Corrado Govoni.
Amante delle lettere, Sergio non rinunciò tuttavia alla lettura dei suoi poeti preferiti, quelli contemporanei, non solo italiani (la triade Carducci, Pascoli e D'Annunzio), ma anche i provinciali francesi e fiamminghi come Francis Jammes, Albert Samain, Charles Guérin, Maurice Maeterlinck, Georges Rodenbach, Jules Laforgue, e quelli dialettali. Le sue intense letture lo aiutarono nel suo esordio poetico e i suoi primi componimenti apparvero su giornali popolareschi.
Il 17 maggio 1902 scriverà il suo primo sonetto, Na bella idea, in romanesco pubblicato in "Pasquino de Roma" al quale seguirà, il 14 settembre 1902, il sonetto di settenari in lingua, Partenza, pubblicato sul Rugantino e dai versi liberi, La tipografia abbandonata, usciti su "Marforio". Si trattava di versi dai temi realistici che rivelavano, nel giovanissimo autore, una precoce predisposizione ad osservare i fatti della vita. Si trovano in essi allusioni alla malattia già latente e in un sonetto del 1906, Vinto, vi sono amare riflessioni sulla perdita della felicità.
Nella primavera del 1905 la precaria salute del giovane poeta, malato di tubercolosi, lo costrinse a soggiornare in un sanatorio a Nocera Umbra dove conobbe una giovane danese, Sania, per la quale provò un intenso e platonico innamoramento. Nel giugno dello stesso anno il poeta si recò a Cremona, città natale della madre, per cercare un aiuto economico dai parenti materni e conobbe una giovane pasticciera con la quale inizierà una breve corrispondenza epistolare. Tra il 1904 e il 1906 furono pubblicate le sue raccolte poetiche: Dolcezze (1904), L'amaro calice (1905), Le aureole (1906), Piccolo libro inutile (1906), Elegia (1906), Libro per la sera della domenica (1906).
Nel 1906 Corazzini, per l'aggravarsi della malattia, venne ricoverato nella casa dei Fatebenefratelli di Nettuno. Dal sanatorio iniziò la corrispondenza con Aldo Palazzeschi e lavorò alla traduzione della Semiramide di Joséphin Péladan che veniva annunciata su "Vita letteraria" come opera di collaborazione con G. Milelli. Nel maggio del 1907 Corazzini ritornò a Roma ma il suo stato di salute peggiorò e il 17 giugno morì di etisia (tubercolosi) nella sua casa di via dei Sediari. È sepolto presso il cimitero del Verano di Roma.
Il crepuscolarismo di Corazzini, che adotta il verso libero e si mostra sensibile alla lezione simbolista, ha anche un forte valore di proposta esistenziale; il poeta si presenta come un fanciullo malato, fino a negare, paradossalmente, il significato di poesia alla sua povera scrittura dell'anima. La sua poesia è focalizzata su "piccole cose", dietro le quali non emergono valori segreti, ma si nasconde il vuoto, tipico dei poeti crepuscolari tra i quali Corazzini fu annoverato. I suoi versi esprimono da un lato un malinconico desiderio per quella vita che la malattia gli negava, dall'altro un nostalgico ritrarsi dall'esistenza presente, proprio perché avara di prospettive future.
Nelle poesie di Corazzini si possono cogliere due momenti: quello del povero poeta sentimentale che racconta la propria malinconia con un linguaggio semplice e dimesso e quello del poeta ironico che adotta un linguaggio meno trasparente, più polisemico, a volte addirittura simbolico.
In Desolazione del povero poeta sentimentale si esprime tutta la poetica di Corazzini dove il "piccolo fanciullo che piange" proclama l'impossibilità di essere chiamato "poeta", affermando così, per la prima volta, la concezione della poetica crepuscolare così in contrasto con il trionfante dannunzianesimo.
Opere
Dolcezze, Tipografia operaia romana, Roma 1904
L'amaro calice (contiene la poesia A Carlo Simoneschi, dedicata all'attore-regista Carlo Simoneschi), Tipografia operaia romana, Roma 1905
Le aureole, Tipografia operaia romana, Roma 1905
Piccolo libro inutile, Tipografia operaia romana, Roma 1906 (contiene anche poesie di Alberto Tarchiani)
Elegia. Frammento., Tipografia operaia romana, Roma 1906
Libro per la sera della domenica, Tipografia operaia romana, Roma, 1906
Liriche, Ricciardi, Napoli 1909 (uscita postuma a cura degli amici)
Liriche, Napoli, 1959 con saggio introduttivo di Sergio Solmi
Poesie edite e inedite, Einaudi Torino 1968 a cura di Stefano Jacomuzzi
Poesie, introduzione e commento di Idolina Landolfi, BUR, Milano 1992
Il mio cuore
Il mio cuore è una rossa
macchia di sangue dove
io bagno senza possa
la penna, a dolci prove
eternamente mossa.
E la penna si muove
e la carta s’arrossa
sempre a passioni nove.
Giorno verrà: lo so
che questo sangue ardente
a un tratto mancherà,
che la mia penna avrà
uno schianto stridente…
… e allora morirò.
Giardini
O piccoli giardini addormentati
in un sonno di pace e di dolcezze,
o piccoli custodi rassegnati
di sussurri, di baci e di carezze;
o ritrovi di sogni immacolati,
di desideri puri e di tristezze
infinite, o giardini ove gli alati
cantori sanno di notturne ebbrezze,
o quanto v’amo! I sogni che rinserra
il mio core, fioriscono, o giardini,
lungo i viali, ne le vostre aiuole.
Io v’amo, io v’amo, o fecondati al sole
di primavera in languidi mattini,
o giardini, sorrisi de la terra!
Invito
Anima pura come un’alba pura,
anima triste per i suoi destini,
anima prigioniera nei confini
come una bara nella sepoltura,
anima, dolce buona creatura,
rassegnata nei tristi occhi divini,
non più rifioriranno i tuoi giardini
in questa vana primavera oscura.
Luce degli occhi, cuore del mio cuore,
tenerezza, sorella nel dolore
rondine affranta nel mio stesso cielo,
giglio fiorito a pena su lo stelo
e morto, vieni, ho spasimato anch’io,
vieni, sorella, il tuo martirio è il mio.
Rime del cuore morto
O piccolo cuor mio, tu fosti immenso
come il cuore di Cristo, ora sei morto;
t’accoglie non so più qual triste orto
odorato di mammole e d’incenso.
Uomini, io venni al mondo per amare
e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti
vostri e ho cantato tutti i vostri canti!
Io fui lo specchio immenso come il mare.
Ma l’amor onde il cuor morto si gela,
fu vano e ignoto sempre, ignoto e vano!
Come un’antenna fu il mio cuore umano,
antenna che non seppe mai la vela.
Fu come un sole immenso, senza cielo
e senza terra e senza mare, acceso
solo per sé, solo per sé sospeso
nello spazio. Bruciava e parve gelo.
Fu come una pupilla aperta e pure
velata da una palpebra latente;
fu come un’ostia enorme, incandescente,
alta nei cieli fra due dita pure,
ostia che si spezzò prima d’avere
tocche le labbra del sacrificante,
ostia le cui piccole parti infrante
non trovarono un cuore ove giacere.
Soliloqui di un pazzo
Sbarrò nell’ombra i grigi occhi perduti:
l’alba coglieva con le dita bianche
le ultime stelle per i cieli muti.
Egli pensò che il cuor tremi alle soglie
dell’anima così, come le stelle
treman la notte, alle divine porte
fin che la pietosa alba le coglie.
«Hai visto tu passare le barelle,
o pazzo insonne, con le stelle morte?»
Chiarità di una lama, o tu che fendi
l’ombra maligna: io t’offro il mio cervello
oscuro e tristo per disegni orrendi.
Io non ho pace, l’anima è un pantano;
nell’anima stagnarono i ricordi,
subitamente; oh quante volte, pietre
vi hanno scagliato con secura mano!
Dopo, il silenzio per i tonfi sordi
sé avvolse in bende assai più gravi e tetre.
Un ragno tesse la sua tela folta
per il mio teschio e nella tela stanno,
morte stecchite, le idee d’una volta.
Mai più, mai più! su le terrene cose
l’occhio non sosta, l’occhio si dispera,
come un’ala ferita ai cieli tende.
Io voglio la tristezza delle rose
morte all’inizio della primavera
per farne una corona alle mie bende.
Il mio cortile con un po’ di cielo,
con poche stelle, a me sembra uno strano
fiore: corolla azzurra e grigio stelo.
Il mio cortile è triste molto, come
il suono di una placida campana
sotto un cielo di nuvole e di pioggia.
Una bianca tristezza senza nome
veste i muri, e nell’alto, una lontana
luce, su li orli, un oro dolce sfoggia.
Tu che mi ascolti non aver pietà,
non lacrimare delle mie sventure
come quel Cristo nell’oscurità.
Ah, quel Cristo, lo vedi? egli moriva
così, come ora, desolatamente,
quando venni alla cella che mi chiude.
Avea negli occhi una gran fiamma viva,
la fronte dolce e pur sanguinolente
e piaghe orrende per le membra ignude.
Non morì mai, non morrà più: mi guarda
nel buio e trema quando il lume trema
come i fanciulli se la sera è tarda.
A poco a poco si dissangueranno
le sue ferite per la doglia atroce
infin che un tarlo, – quando? – lentamente
roda i chiodi terribili che sanno
l’ossa dell’uomo e il legno della croce
e spezzi invano quel suo cuore ardente.
Chi mi parla dell’anima? Un impuro
ladro, forse, o un abate incipriato?
L’anima è morta ed io ne son sicuro.
Come una fonte semplice e tranquilla
donò la gioia alle riarse gole
degli umani e non seppe, ahimè! tenere
per la sua sete giovane una stilla!
Morì così, come un ignoto sole
spento su le fiorite primavere.
Chi batte alla mia porta? sei tu, cara?
Vieni con l’alba alla mia cella triste?
L’inchiodi forse questa grigia bara?
Mi ricordo di te, sola; eri bionda,
esile come un sogno giovinetto,
pallida come un astro mattutino;
te sola, nell’oscurità profonda
del mio cuore, t’accorgi per diletto;
te sola, con il mio tetro destino.
Chi tenta l’ombra che stagnò nei trivi
in cui le donne come idee mal certe
più volte si volgean tentando i vivi?
Chi veste d’auree stole anche le immonde
case che il fango d’un amplesso cinge?
Chi l’oro ai figli della terra adduce?
Ah, sei tu, sole, che le più profonde
pupille ferme nell’eterna sfinge
avvivi, anima orgiaca della luce?!
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