Paolo Febbraro (Roma, 29 gennaio 1965) è un poeta e critico letterario italiano. Ha studiato presso l’Università La Sapienza di Roma, dove ha raggiunto il titolo di dottore di ricerca. Svolge l’attività di insegnante presso le scuole statali superiori. Come poeta ha esordito nel 1993 nella silloge Quarto quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni con Disse la voce, che in seguito venne inserita nel suo primo volume di poesie del 1999 intitolato Il secondo fine. Nel 2003 pubblicò l'opera in versi Il diario di Kaspar Hauser iniziando così una riflessione sul personaggio letterario dell'isolamento, che lo porterà anche alla pubblicazione di saggi di critica militante e recensioni sull’Annuario critico di Poesia fondato da Giorgio Manacorda, che poi ha curato dal volume Poesia 2006 all’ultimo, Poesia 2012. Ha pubblicato saggi su De Sanctis, Palazzeschi, Penna, Saba, Pontiggia, Berardinelli.
Ha tradotto versi di Edwin Muir, Ted Hughes, Seamus Heaney e Geoffrey Brock. Ha pubblicato la prima edizione italiana del poeta inglese Edward Thomas. Le sue poesie sono state tradotte in inglese («Poetry», «PNReview»), francese («Po&sie») e spagnolo («Zibaldone. Estudios italianos»). Ha collaborato con UTET ed Enciclopedia Italiana Treccani e contribuisce alle pagine culturali del «Manifesto» e del «Sole 24ore». Collabora alla Rivista “L’Eta del Ferro” ed. Castelvecchi.
Opere di Poesia
Il secondo fine (Marcos y Marcos, 1999). Premio Mondello per l'Opera prima
Il diario di Kaspar Hauser (L'Obliquo, 2003) (traduzione spagnola: El Diario de Kaspar Hauser, Madrid, La Palma, 2015; traduzione inglese The Diary of Kaspar Hauser, [Alabama USA], Negative Capability Press, 2017; traduzione francese Derrière la vérité, les choses: le journal de Kaspar Hauser, Nice, Arcade Ambo, 2020)
Il bene materiale. Poesie 1992-2007 (Libri Scheiwiller, 2008) nella collana «Prosa e poesia» diretta da Alfonso Berardinelli
Deposizione, Faloppio (LietoColle, 2010)
Fuori per l’inverno (Nottetempo, 2014)
La danza della pioggia (Elliot Edizioni, 2019)
da IL BENE MATERIALE
Volo a settembre
«Allerta, volo, verifica la posizione».
«Indifferenza, prima di tutto, mia
torre di controllo, e un po’ di sonnolenza
tipica del mattino, se non della sera.
Qualche insoddisfazione, nella sfera
più che pubblica, privata. Nello stomaco
la colazione, già ampiamente avviata.
E una crepa nell’intonaco, infine,
dell’intendimento, come il sospetto,
o un’ansia, di dirottamento».
«Ti ho detto, volo, c’è uno scostamento».
«Torre, ti assicuro, non potrei
esserne più cosciente. Forse non è ancora
tutto OK: sento alla gente, di là,
sfuggire un commento, che ad ora
ad ora si fa più incalzante.
Ma è normale, se rinuncio all’automatico
e torno al manuale. Non c’è mai
la sicurezza che possano tutti accettare
i benefici dell’altezza».
«Torna alla rotta, volo: sarai sospeso».
«Vuoi che trasporti le anime
e ne abbia il cuore illeso?
La senti anche tu salire la protesta,
il rimpianto dei bassi, la mesta
invidia dei semplici fondamentali?
Il cibo in loro è già fermentato
e imprecano, feroci, all’avarizia
che adesso conteggia un tempo avariato.
La fine li vizia: deprecano l’anticipo
della loro notte occidentale.
Lo gridano in coro, ma il volo non sale».
«Volo, pietà: riavrai la licenza».
«Torre, ti vedo. Ti vedo al plurale.
Senti le ali scricchiolare, come
le ossa, o le tue giunture: facili,
anche le strutture inclinano alla violenza.
Di là viene il canto, il bianco saluto:
do loro lo schianto, la rima più certa,
il loro carnale, reciproco aiuto.
Morire: il volo è già un verbo
finale, coniugato all’infinito,
come l’eterno modo criminale.
Per sempre, addio: il volo è riuscito».
«Buongiorno, mi dia tre etti del cadavere
di un manzo. Però mi raccomando, che sia
di quello che non ha sofferto andando
al macello, del più sciocco, fidente o
soprappensiero, cui l’ultimo muggito
non abbia striato la carne d’incubo
e maledizione contro la nostra biblica
autorità, e autorizzazione. Un bel vitello
con la nervatura non ustionata
dalla memoria d’un cancello.
Che stia bene col brodo leggero,
la frutta di stagione e l’aroma
del vino novello. Mi dia di quello».
I tempi morti
Finisce novembre e gli uccelli
portano alle tettoie stecchi
nudi, sminuzzano in volo i venti.
Col pane fresco in braccio due vecchi
teneri di fame e nostalgie pensano
ai propri vent’anni, ai denti.
Scorrono campi di cardi attorno
alla stazione suburbana; ritardi
si annunciano in alto ad alta voce; sulla
panchina, le gambe a croce, medita
il passeggero i suoi eterni torti.
Son questi – pensa – i tempi soliti,
i tempi morti.
Il patimento si aggiorna, banale
si sfoglia la pagina di cartavetro:
lo mormora l’acquirente del giornale
e vorrebbe tornare indietro. La Borsa
titoli cade, il mondo vale meno;
le vertebre del viaggiatore avvertono
sul sedile la restituzione del freno.
Studenti scendono in fretta, chiassosi
nella uniforme giovanile: fra storico
e vile è lo sguardo di due anziani
reduci del Novecento, fra le mani
due sorti. Più degli andati – si stringono –
verranno tempi morti.
Al finestrino accanto, c’è uno che vive,
nel vagone male scaldato, incide
sul foglio parole afone, prive
di socievolezza; solo, un po’ curvo,
scarta e intride, si prende il disturbo.
Come per musica annota
ciò che ha sentito più casualmente;
svuota i doveri del tempo libero,
il giardinaggio della mente, incastra
pensieri cari, termini corti.
Non pagherà la moneta dei vivi
– mormora – la cura dei tempi morti.
Tempo reale
Mia moglie è dal suo parrucchiere
seduta allo specchio, sotto mani
guantate in lattice che intrecciano
e sciolgono la scena della corta
capigliatura. Come labili punte
di lancia i capelli inumiditi
le segnano una tempia o si alzano
in cresta prima che il pettine
li rimetta all’ordine e all’età.
Lei increspa la fronte, accentra
le pupille cerchiate di neon,
si scruta: «Oh se la fine –
pensa, e non è più distratta –
fosse il mutamento di un’ora,
lo spezzare calcolato di un capello
e non questo svanire presunto
inosservabile, questa lavatura
delicata e infame. Fosse uno squillo
solenne, una catastrofe precisa
cui ci si rechi come a scadere».
Poi s’alza, in piega asciutta,
paga silenziosa, esce in strada
ed il cammino la riporta rapida.
Sento la chiave nella porta,
il passo chiaro, appena disperso,
che stringe ormai la penna all’ultimo verso.
Non è meno infinita del mare
la roccia, con il suo non parlare
tetro, materia delusa, implosa,
nel suo sgretolarsi, una rosa.
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