Era cugino dello scrittore Giovanni Orelli.
Poesia
Né bianco né viola, Lugano, Collana di Lugano, 1944.
Prima dell'anno nuovo, Bellinzona, Leins e Vescovi, 1952.
Poesie, Milano, Edizioni della Meridiana, 1953.
Nel cerchio familiare, Milano, Scheiwiller, 1960.
L'ora del tempo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1962.
6 poesie, Milano, Scheiwiller, 1964.
5 poesie, con 5 seriografie di Madja Ruperti, San Nazzaro (Gambarogno), Serigrafia San Nazzaro, 1973.
Sinopie, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1977.
Spiracoli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1989.
Rückspiel - Partita di ritorno, Italienisch und Deutsch, ausgewählt und übersetzt von Christoph Ferber, mit einem Gespräch zwischen Giorgio Orelli und Alice Vollenweider und einem Nachwort von Maria Antonietta Grignani, Zürich, Limmat Verlag, 1998.
Il collo dell'anitra, Milano, Garzanti, 2001.
Sagt es den Amseln – Ditelo ai merli, italienisch und deutsch, ausgewählt und übersetzt von Christoph Ferber. Mit einem Nachwort und einem Gespräch mit Giorgio Orelli von Pietro De Marchi. Zürich, Limmat Verlag, 2008.
Tutte le poesie, a cura di Pietro De Marchi, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, bibliografia di Pietro Montorfani, Milano, Arnoldo Mondadori Editore "Oscar poesia", 2015.
da L’ora del tempo
SERA A BEDRETTO
Salva la Dama asciutta. Viene il
Matto.
Gridano i giocatori di tarocchi.
Dalle mani che
pesano
cade avido il Mondo,
scivola innocua la Morte.
Le capre, giunte quasi sulla
soglia
dell’osteria,
si guardano lunatiche e pietose
negli
occhi,
si provano la fronte
con urti sordi.
*
CARNEVALE A PRATO LEVENTINA
È questa la Domenica Disfatta,
senza
un grido né un volo dagli strani
squarci del cielo.
……………….Ma
le lepri
sui prati nevicati sono corse
invisibili, restano
dell’orgia
silenziosa i discreti disegni.
I ragazzi nascosti nei vecchi
che
hanno teste pesanti e lievi gobbe
entrano taciturni nelle
case
dopocena: salutano con gesti
rassegnati.
…………….Li
seguo di lontano,
mentre affondano dolci nella neve.
*
A UNA BAMBINA TORNATA AL SUO MARE
Ti dirò, Grazia, che
posso pensare
a capre,
a sere scivolate lungo schiene
curve di vacche ai
pascoli.
Da quanto tempo è chiusa
la stanza dove ho inciso il
mio nome
senza superbia,
scritto i miei primi versi. Fermi i
groppi
del soffitto, che un tempo erano occhi.
Morte le vecchie
zie.
……………..Ma i ruscelli hanno agli orli
del loro
canto il più giovane verde.
E raggio insieme a raggio
del sole
posso sentire posarmi
in quest’ora sul corpo, e non mi lagno
se
come un vecchio dentro ne risuono.
Volentieri perdóno
al vento
e in un esiguo prato
m’arresto a ricordare
te che immersa
nell’erba mi gridavi:
«Guarda, nuoto nel mare».
*
A MIA MOGLIE, IN MONTAGNA
Dal fondo del vasto catino,
supini
presso un’acqua impaziente
d’allontanarsi dal vecchio
ghiacciaio,
ora che i viandanti dalle braccia tatuate
han
ripreso il cammino verso il passo,
possiamo guardare le
vacche.
Poche sono salite in cima all’erta e pendono
senza
fame né sete,
l’altre indugiano a mezza costa
dov’è
certezza d’erba
e senza urtarsi, con industri strappi,
brucano;
finché una
leva la testa a ciocco verso il cielo,
muggisce ad
una nube ferma come un battello.
E giungono fanciulli con frasche
che non usano,
angeli del trambusto inevitabile,
e subito due
vacche si mettono a correre
con tutto il triste languore degli
occhi
che ci crescono incontro.
Ma tu di fuorivia, non
spaventarti,
non spaventare il figlio che maturi.
***
da Sinopie
A GIOVANNA
C’era una gran calma. E poiché
non
eri riuscita a mangiare il carillon
né il leprotto né il
barboncino bianco
né quell’altro bestiolo che neanche tua
madre
sa se sia un asinello o un cavallino
o altro che ai
nostri tempi scarseggia,
dopo l’amen del rutto ti portammo un
po’ fuori.
C’era proprio una gran calma
domenicale, e una nebbia
leggerissima, tinta d’azzurro
donde
a un tratto emergevano castelli
senza una goccia di sangue,
pali
da vigna bianchi, toccati
di verderame, fuggenti sui
pendii,
rocce striate di sonno.
………………..Oh non vacillavamo
nella nebbia
tua madre ed io, tu ci tenevi d’occhio
anche
dormendo, andavamo pian piano,
molto di qua dal fiume andavamo
pian piano
su quell’isola appena riemersa, tra quei pascoli
alti,
per campi lieti di trasudare,
e dalla nebbia innocente
giungevano gridi
simili a quelli dei tuoi piccoli animali,
e
avessi visto come correva l’agnello
colore del prato
invernale
dov’era rimasto solo.
A metà strada incontrammo altre
madri,
altri padri, con la Paola nata
poco prima di te, con la
Maura nata poco dopo,
ma tu ti chiamavi Giovanna, e, mentre le
mamme
che non si conoscevano, nemmeno dalle lezioni serali
di
ginnastica (senza cappello la tua, quel cappello
per cui cento
pernici sono morte),
dicevano il colore degli occhi e dei
capelli
e il tempo non passava, noi padri, vecchi amici, un po’
più [in là,
per far qualcosa ci coprimmo di nebbia
a segno
che le madri ci chiamarono
come fossimo andati lontano.
Tornammo per la strada maestra
e fu
tutt’altra cosa: la nebbia inghiottiva i palazzi,
convocava
timori intorno a noi.
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