sabato 9 agosto 2025

ORELLI Giorgio (1921 - 2013)

 foto© Yvonne Böhler
Giorgio Orelli (Airolo, 25 maggio 1921 – Bellinzona, 10 novembre 2013) è stato uno scrittore, poeta e traduttore svizzero, di lingua italiana. Dopo gli studi universitari a Friburgo (sotto la guida, in particolare, di Gianfranco Contini), Orelli si trasferì a Ravecchia (Bellinzona), dove diventò docente di letteratura italiana, dapprima alla Scuola Cantonale di Commercio, poi al Liceo Cantonale. La sua poesia, in parte appartenente al filone post-ermetico, a tratti avvicinata a quella Linea Lombarda anceschiana che però è ricca di grazia musicale (notevole è l'attenzione - non solo poetica, ma anche critica - di Orelli per la dimensione fonosimbolica) e si caratterizza per una sua ironica ambiguità. Giorgio Orelli, oltre ad essere uno dei più importanti poeti in lingua italiana del dopoguerra, fu un profondo conoscitore della letteratura italiana (che venne sviscerata nel saggio Accertamenti verbali), traduttore di Goethe e narratore. Vinse il Gran Premio Schiller, il Premio Dessì nel 1989; nel 2001 gli venne assegnato il Premio Chiara alla carriera e nel 2002 il Premio Bagutta.
Era cugino dello scrittore Giovanni Orelli.

Poesia
Né bianco né viola, Lugano, Collana di Lugano, 1944.
Prima dell'anno nuovo, Bellinzona, Leins e Vescovi, 1952.
Poesie, Milano, Edizioni della Meridiana, 1953.
Nel cerchio familiare, Milano, Scheiwiller, 1960.
L'ora del tempo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1962.
6 poesie, Milano, Scheiwiller, 1964.
5 poesie, con 5 seriografie di Madja Ruperti, San Nazzaro (Gambarogno), Serigrafia San Nazzaro, 1973.
Sinopie, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1977.
Spiracoli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1989.
Rückspiel - Partita di ritorno, Italienisch und Deutsch, ausgewählt und übersetzt von Christoph Ferber, mit einem Gespräch zwischen Giorgio Orelli und Alice Vollenweider und einem Nachwort von Maria Antonietta Grignani, Zürich, Limmat Verlag, 1998.
Il collo dell'anitra, Milano, Garzanti, 2001.
Sagt es den Amseln – Ditelo ai merli, italienisch und deutsch, ausgewählt und übersetzt von Christoph Ferber. Mit einem Nachwort und einem Gespräch mit Giorgio Orelli von Pietro De Marchi. Zürich, Limmat Verlag, 2008.
Tutte le poesie, a cura di Pietro De Marchi, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, bibliografia di Pietro Montorfani, Milano, Arnoldo Mondadori Editore "Oscar poesia", 2015.



da L’ora del tempo

SERA A BEDRETTO

Salva la Dama asciutta. Viene il Matto.
Gridano i giocatori di tarocchi.
Dalle mani che pesano
cade avido il Mondo,
scivola innocua la Morte.

Le capre, giunte quasi sulla soglia
dell’osteria,
si guardano lunatiche e pietose
negli occhi,
si provano la fronte
con urti sordi.

*

CARNEVALE A PRATO LEVENTINA

È questa la Domenica Disfatta,
senza un grido né un volo dagli strani
squarci del cielo.
……………….Ma le lepri
sui prati nevicati sono corse
invisibili, restano dell’orgia
silenziosa i discreti disegni.

I ragazzi nascosti nei vecchi
che hanno teste pesanti e lievi gobbe
entrano taciturni nelle case
dopocena: salutano con gesti
rassegnati.
…………….Li seguo di lontano,
mentre affondano dolci nella neve.

*

A UNA BAMBINA TORNATA AL SUO MARE

Ti dirò, Grazia, che
posso pensare a capre,
a sere scivolate lungo schiene
curve di vacche ai pascoli.
Da quanto tempo è chiusa
la stanza dove ho inciso il mio nome
senza superbia,
scritto i miei primi versi. Fermi i groppi
del soffitto, che un tempo erano occhi.
Morte le vecchie zie.
……………..Ma i ruscelli hanno agli orli
del loro canto il più giovane verde.
E raggio insieme a raggio
del sole posso sentire posarmi
in quest’ora sul corpo, e non mi lagno
se come un vecchio dentro ne risuono.
Volentieri perdóno
al vento e in un esiguo prato
m’arresto a ricordare
te che immersa nell’erba mi gridavi:
«Guarda, nuoto nel mare».

*

A MIA MOGLIE, IN MONTAGNA

Dal fondo del vasto catino,
supini presso un’acqua impaziente
d’allontanarsi dal vecchio ghiacciaio,
ora che i viandanti dalle braccia tatuate
han ripreso il cammino verso il passo,
possiamo guardare le vacche.
Poche sono salite in cima all’erta e pendono
senza fame né sete,
l’altre indugiano a mezza costa
dov’è certezza d’erba
e senza urtarsi, con industri strappi,
brucano; finché una
leva la testa a ciocco verso il cielo,
muggisce ad una nube ferma come un battello.
E giungono fanciulli con frasche che non usano,
angeli del trambusto inevitabile,
e subito due vacche si mettono a correre
con tutto il triste languore degli occhi
che ci crescono incontro.
Ma tu di fuorivia, non spaventarti,
non spaventare il figlio che maturi.

***

da Sinopie

A GIOVANNA

C’era una gran calma. E poiché
non eri riuscita a mangiare il carillon
né il leprotto né il barboncino bianco
né quell’altro bestiolo che neanche tua madre
sa se sia un asinello o un cavallino
o altro che ai nostri tempi scarseggia,
dopo l’amen del rutto ti portammo un po’ fuori.

C’era proprio una gran calma domenicale, e una nebbia
leggerissima, tinta d’azzurro
donde a un tratto emergevano castelli
senza una goccia di sangue, pali
da vigna bianchi, toccati
di verderame, fuggenti sui pendii,
rocce striate di sonno.

………………..Oh non vacillavamo nella nebbia
tua madre ed io, tu ci tenevi d’occhio
anche dormendo, andavamo pian piano,
molto di qua dal fiume andavamo pian piano
su quell’isola appena riemersa, tra quei pascoli alti,
per campi lieti di trasudare,
e dalla nebbia innocente giungevano gridi
simili a quelli dei tuoi piccoli animali,
e avessi visto come correva l’agnello
colore del prato invernale
dov’era rimasto solo.

A metà strada incontrammo altre madri,
altri padri, con la Paola nata
poco prima di te, con la Maura nata poco dopo,
ma tu ti chiamavi Giovanna, e, mentre le mamme
che non si conoscevano, nemmeno dalle lezioni serali
di ginnastica (senza cappello la tua, quel cappello
per cui cento pernici sono morte),
dicevano il colore degli occhi e dei capelli
e il tempo non passava, noi padri, vecchi amici, un po’ più [in là,
per far qualcosa ci coprimmo di nebbia
a segno che le madri ci chiamarono
come fossimo andati lontano.

Tornammo per la strada maestra
e fu tutt’altra cosa: la nebbia inghiottiva i palazzi,
convocava timori intorno a noi.




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