lunedì 23 giugno 2025

Massimo Raffaeli su "Il Manifesto" ricorda Stefano Simoncelli

 

Il ricordo di Massimo Raffaeli su “Il Manifesto” del poeta Stefano Simoncelli, morto poco più di un mese fa.


Un duplice esordio segna la vicenda poetica di Stefano Simoncelli, uno dei maggiori poeti italiani, mancato nella notte del 20 maggio nella Cesenatico in cui era nato il 6 gennaio del 1950. Il primo incipit è un segno generazionale con la fondazione della rivista “Sul Porto” (1973-’83) che dà voce tanto all’inquietudine politica di giovani interni al Movimento quanto agli impulsi ed estri immaginativi che la sola politica non può mediare. Perché “Sul Porto” nasce dal silenzio procurato dal Gruppo 63 come dal consenso istituzionale del PCI: oltre ai testi dei redattori (fra costoro Walter Valeri e Ferruccio Benzoni, un altro poeta di massimo rango) “Sul Porto” ospita fisionomie di maestri non collocabili nella stretta dialettica di Ordine e Disordine come Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Caproni, Giovanni Raboni, Giorgio Orelli, Sandro Penna e quel Vittorio Sereni che dei ragazzi di Cesenatico (li chiamava “i fratellini”) diverrà un riferimento essenziale. Nel quaderno collettivo di Guanda che già nel 1980 ospita “Sul Porto” c’è un mannello di poesie di Simoncelli, Via dei Platani, e testimonia di un lirico che predilige l’elegia e dunque il richiamo al presente, nell’hic et nunc, dei lontani e dei trapassati, come si trattasse di una perpetua elaborazione del lutto. Quanto a questo, l’ispirazione di Simoncelli non cambierà mai pure se dopo il primo esordio, la fine di “Sul Porto” e lo sfaldarsi del gruppo che animava la rivista, c’è per lui una improvvisa battuta d’arresto che prelude ad alcuni fatti capitali: la laurea in Fisica a Bologna con la decisione di non farne nulla, l’inizio di una carriera tennistica di un certo rilievo (Stefano sarà un maestro affettuoso e irruento, come era tipico del suo carattere malinconico travisato da burbero), infine l’incontro con Patrizia, la sua prima moglie amatissima e troppo presto perduta. Gli anni ottanta e novanta sono anni di deriva e dispersione, costellati di assenze e di lutti: ne è riprova l’uscita da Gremese nel 1989 del volume Poesie d’avventura che non voleva affatto pubblicare (fu Enzo Siciliano a strapparglielo di mano), un libro che sembra non avere una struttura interna ma tuttavia è bellissimo, il prologo inconscio di quanto il poeta prenderà a pubblicare solo vent’anni dopo. Perché bisogna attendere il quinquennio 2004-2008 per il secondo e autentico esordio di Simoncelli con il trittico Giocavo all’ala, La rissa degli angeli, Stazione remota tutti proposti da peQuod, l’editrice anconetana di Marco Monina e Antonio Rizzo cui va reso il merito non solo di averne effettuato il recupero ma di averne pubblicato con fedeltà e dedizione i libri successivi, non meno di una decina. La poesia di Simoncelli è data una volta per sempre e consiste in un ininterrotto dialogo con i defunti (sua moglie Patrizia, poi sarà la madre, il padre, vecchi amici, figuranti della vita), i quali non tornano al presente come spettri assillanti ma da interlocutori muti, attori in un dialogo necessario a chi è sopravvissuto: chiara qui è la lezione di Pascoli (ma un Pascoli esente da familismo e dai sovratoni del phatos) che si lega a quella, naturalmente, di Vittorio Sereni. E’ come se Simoncelli fosse ripartito dalla poesia che sta in fondo a Gli strumenti umani e si intitola La spiaggia, dove è detto: “i morti non è quel che di giorno/ in giorno va sprecato, ma quelle/ toppe d’inesistenza, calce o cenere/ pronte a farsi movimento e luce”. Le presenze postume che abitano la poesia di Simoncelli non sono infatti i correlativi oggettivi della nostalgia (e nemmeno, a ben leggere, le proiezioni della sua personale malinconia) ma sono viceversa i segnacoli di un’esistenza disperatamente agita, ad ogni istante agognata, pure se cosciente del proprio destino di mortalità. E sono ancora i motivi che toccano i libri della sua compiuta maturazione, ancora una volta proposti in sequenza, stavolta una tetralogia: Terza copia del gelo (’12), Hotel degli introvabili (’14), Prove del diluvio (’17) e Residence Cielo (’19). Lo stile non potrebbe essere più classico, la lingua è senza macchie di gergo, il metro è l’endecasillabo di base riproposto con continue variazioni ritmiche (anche il più asimmetrico dei versi qui cade sempre in piedi): ciò che ne connota i testi e li rende subito riconoscibili è la sua “voce”, una cadenza che all’inizio pare leggermente saccadé eppure sa mantere un suo tenacissimo equilibrio. Ad apertura di pagina, da Hotel degli introvabili: “Poi in un’alba livida e piena di vento,/ quando ormai non ci contavo più,/ si è aperta e richiusa la porta dove dormivo/ e l’ho visto: era lì, ai piedi del letto,/ che mi aspettava fumando”. A ripensarlo nel sole della casa dei suoi ultimi anni sulla collina dell’Acquarola, sopra Cesena, vicino alla seconda moglie molto amata, Daniela, circondato dai suoi cani inseparabili, Teo e Margot, dedito alle passioni di sempre (il fumo, lo wiski, il gioco del calcio e la Juventus) chiunque avrebbe detto la sua vita finalmente compiuta, a partire dagli amici poeti che lo andavano a trovare, da Giancarlo Sissa a Mario Santagostini, da Francesco Scarabicchi a Fabio Pusterla che ne ospitò una bellissima antologia complessiva - Stazioni remote – nella sua collana da Marcos y Marcos nel 2023. Lì Stefano Simoncelli, lui che poteva sembrare sempre un po’ ruvido e distante, officiava il rito della ospitalità, la virtù poetica per eccellenza, per un senso in lui così innato dell’amicizia da non sentire nemmeno il bisogno di dichiararla. “Non assomiglio più a nessuno…/ Certe volte sembro un banco di nebbia,/ impenetrabile e denso, come quelli// che arrivano dal mare a tradimento/ verso mezzogiorno portandosi via tutto”: La persona di Stefano Simoncelli, ed è raro, annunciava la sua stessa poesia.

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