martedì 16 settembre 2025

MOSCE' Alessandro (1969 - viv.)

 

Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Si occupa di letteratura italiana. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme, 2005), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali, Bergamo, 2008), Hotel della notte (Aragno, Torino, 2013, Premio San Tommaso D’Aquino), La vestaglia del padre (Aragno, Torino, 2019) e Per sempre vivi (Pellegrini, 2024, Premio Poesia del Mezzogiorno). E’ presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Stati Uniti, Argentina e Messico. Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale, Ancona, 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano, Roma, 2012), L’età bianca (Avagliano, Roma, 2016), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville, Siena, 2018, finalista al Premio Flaiano) e Le case dai tetti rossi (Fandango, Roma 2022, Premio Prata). Ha dato alle stampe l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici e visionari (Il lavoro editoriale, Ancona, 2003); i libri di saggi critici Luoghi del Novecento (Marsilio, Venezia, 2004), Tra due secoli (Neftasia, Pesaro, 2007), Galleria del millennio (Raffaelli, Rimini, 2016), l’antologia di poeti italiani del secondo Novecento The new italian poetry (Gradiva, New York, 2006) e la biografia Alberto Bevilacqua. Materna parola (Il Rio, Mantova, 2020). Ha ideato il periodico di arte e letteratura “Prospettiva” e scrive sul quotidiano “Il Foglio”. Ha diretto il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”.
(dal sito personale  www.alessandromosce.com)



Abbraccio domenicale

Questi rami schermo di un vento che spinge,
soffici sotto la pioggia a sprazzi
in un marzo di piccioni e merli,
ancora qui, nel mio giardino invisibile
di panchine e nonnulla,
di anfratti dove le mani si perdono
nell’angelo degli adolescenti.
Qui dove morire è esistere
nell’abbraccio domenicale di un selfie
e nell’ansia prima delle partite,
nella calma desolata, sottile,
rimasta a mezza altezza nello stradino
dove le badanti dell’est confabulano
prima di aprire l’ombrello.
Qui, dove nessuno potrebbe smettere
di amare il bambino che è stato
correndo sui pattini a rotelle
o calciando il pallone per un tiro a effetto.
Qui, dove è facile innamorarsi di un lampo
che rispecchia volti e capelli,
ciò che rimarrà nella galleria di un iPhone



Diciamole ancora due cazzate

Diciamole ancora due cazzate,
come quelle pallavoliste salate di mare
e quei padri sui pattini per la gioia dei figli piccoli
con il suono dell’iPad che fa l’eco nella voce
e sulla scia della sabbia di un’altra estate finita.
Ma le coppie al sole si odiano o si amano?
Qualcuno vorrebbe scappare nella hall dell’albergo
dove le ragazze sono sempre più silenziose
nel ciabattare con gli anelli all’alluce.
Indossano il costume giallo
sopra la pelle incandescente e guerriera
che reclama un altro agosto
per pettinarsi i capelli e asciugarsi il collo,
per cercare un account
tra le dita febbrili e lascive



Spegni la luce

Spegni la luce, andiamo
nella stanza da gioco, dove fa più caldo
o di là, in cucina, dove si schiudono i sorrisi
dei primi giorni di aprile.
Quante volte si muore ogni giorno, specie di notte,
quando si cerca una mano tra le ombre,
nella culla di un sogno finito male
o nel fischiettio del vicino insonne
che ha la memoria lunga dei contadini
e raccoglie tutti i tramonti e le albe
innaffiando gli alberi da frutto.
Quante volte si sopravvive ad ogni morte,
ad ogni vapore mellifluo
se il cuore si stringe
per chi non c’è più da decenni
incoronato come il santo di una chiesa
che nessuno viene a trovare
neanche dopo la messa della domenica



Quel cortile, ricordi?

“Quel cortile, ricordi?”,
dolcissimo arrivo a piedi,
sosta del gran passare
fuori città, appena un po’
e ancora più in là, sull’erba,
dove si vedono i tir
che attraversano le stagioni
e non si fermano mai.
Tutto è rimasto docile,
ma tutto è bruciato.
L’aria continua a muovere
quel salice che non vediamo più:
l’asfalto brilla,
la pioggia si asciuga
nella levità di aprile,
nel vento grigio
che non dispone le cose,
che le scompiglia nell’umida sera


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