martedì 21 ottobre 2025

#stranieri / MICHAELS Anne (1958 - viv.)


Anne Michaels (Toronto, 15 aprile 1958) è una poetessa e scrittrice canadese. Nata a Toronto, nell'Ontario nel 1958, Michaels ha frequentato l'Accademia di Vaughan Road e successivamente l'Università di Toronto, dove è attualmente docente presso il Dipartimento di letteratura inglese. Il suo primo libro, The Weight of Oranges (1986), volume di poesie, è stato premiato col "Commonwealth Prize". Per la poesia ha ricevuto il National Magazine Awards, il Canadian Authors Association Award ed una nomina al Premio del Governatore Generale (1991) per la sua seconda raccolta poetica, Miner's Pond. Michaels ha scritto due romanzi, meglio conosciuta per il primo, Fugitive Pieces (1996, pubblicato nel Regno Unito nel 1997 ed in Italia nel 2001), che ha riscosso molto successo internazionalmente ed ha ricevuto il "Books in Canada First Novel Award", il "Trillium Book Award", l'"Orange Prize" ed il "Guardian Fiction Prize". Michaels, che ha anche composto pezzi musicali per il teatro, ha dichiarato: "Quando metti tanto amore nel tuo lavoro, come in un qualsiasi rapporto, non puoi sapere – ma solo sperare – che ciò che stai offrendo sarà recepito in qualche modo. Formi il tuo amore secondo le esigenze artistiche, i rigori del tuo genere letterario. Pur tuttavia è un atto d'amore, ed è natura dell'amore che tu debba darlo liberamente." Nel 2011 ha preso parte al progetto del Bush Theatre londinese, il Sixty Six Books, per cui ha scritto un pezzo basato su un libro della Bibbia di re Giacomo.

Romanzi
Fugitive Pieces, 1996 / In fuga, Giunti Editore, 1997
The Winter Vault, 2009 / La cripta d'inverno, Giunti Editore, 2009

Antologie poetiche
The Weight of Oranges (1986)
Miners Pond (1991)
Skin Divers (1999)
Poems (2000)
Correspondences (2013) (finalista al Griffin Poetry Prize 2014)

***

traduzioni di Marco Malvestio

Anna

La felce che un poco alla volta
strisciava fuori dal vaso –
non si muoveva nient’altro.
Le confessioni, da noi, si facevano
tra la penombra e il ronzare del frigo
in cucina: nel poco di luce
che resta aggrappato alle cose
la sera presto, o nel vibrato pallido
prima dell’alba e della colazione.

Quell’estate sedevamo sotto il portico
come presagendo la sua fine
e salutavamo Anna, sedici anni,
sneakers e shorts bianchi,
di fretta, ormai a metà della via.
Volava in quelle sere delicate
come una falena, irrequieta
nell’alone dei lampioni e del tramonto.

Una notte guidammo fino al lago,
oltre la discarica del porto,
le rotaie, le fabbriche, i container.
Guardammo l’acqua fino a notte fonda
senza sapere che Anna era con noi,
che gridava nell’aria salmastra,
che gridava in quell’abbraccio luccicante
che, così come si era spalancato,
si era chiuso su di lei.
Nessuno sentì niente.
Fari di navi sulla superficie
come luce nello spiraglio della porta.

Galleggiava sul lago come un tronco.
A due miglia da noi, nell’annullarsi
lento dei colori nella notte,
i gabbiani si affollavano sull’acqua.

I finali concordano: un bivio.
Il dolore colpisce dove prima
aveva colpito l’amore.
Quella mattina, la nostra ultima insieme.
sedemmo con la famiglia, in stanze buie,
di Anna, guardammo sua madre
lasciarle un maglione sulla bara.
Ci imbarazzano, certi finali,
l’amore è ancora vivo e si dimena
sotto la superficie del cuore.

Una voce ci riscuote
che non riconosciamo.
Andiamo più vicini, tentiamo
di distinguere bene le parole.
È questo che fa cominciare
o finire l’amore: cominciamo
a capire le parole.
Per salvarci doniamo e perdoniamo.

La morte e l’amore li riconosciamo
quando li impariamo a nominare:
ciascuno con il proprio
nome, ciascuno col nome dell’altra.
Il nome di una ragazza che la nostra
sordità ha reso odioso.

*

Il peso delle arance

“Now I lodge in the cabbage patches
of the important…
Not much sleep under strange roofs
with my life far away…”

– Osip Mandelstam

La mia tazza ha il colore del pane e della sabbia,
la pioggia, dello stesso
colore del palazzo qui di fronte,
ha sciupato le dalie rosse ed un libro
lasciato sul davanzale.

La pioggia fa parlare
la pelle di ogni cosa,
il rosa fiamma del mattoni appena cotti,
foglie verde lucertola, le lingue
contorte delle pigne.
È precisa come noi non siamo mai,
tira fuori il meglio di ogni cosa
conservandola intatta.

Il nostro letto con la pioggia si fa umido
e la stanza diventa una caverna
al mattino, una tenda al pomeriggio:
la pioggia accende il suono del fogliame
che manca per tutto l’inverno – il suono
che ci chiama fuori dal letto…
Catturati dal vento con le foglie
bagnate.

Scrivo ascoltando lo stesso
suono che ci svegliava, nel respiro
delle tende nella stanza mezza buia.

Mi sveglio presto, di recente, cammino.
Ti ricordi le nostre camminate?
Orizzonti appena rossi nell’aurora
come labbra – e ci sembrava così dolce
allora, la distanza.
Le lettere andrebbero scritte
per dare notizie, per dire
ti aspetto in stazione.
Non queste lacrime asciutte, che ci onorano
come si onora una tomba.
Mi vergogno della nostra lontananza –
mi sveglio di notte e vedo scritto
nell’aria VERGOGNA, come nella Bibbia,
e nel sogno la mia pelle è tatuata
con tutte le parole che mi hanno
costretto in quarantena, coperto di vesciche –
e sai che cosa?
Ho paura di accendere la luce
per controllare.

Che bravo carpentiere tuo marito.
A me bastano poche parole
per appiccare incendi ad ogni casa
che abbiamo abitato: parole di legno,
da sole sono prive di potere,
ma eccole, umili e grate,
esplodermi in viso non appena
acquisiscono un senso.

Siamo come pianeti, ci teniamo
stretti da distanze lontanissime.
Gli oceani flettono, quando ci sdraiamo,
i loro muscoli verdastri, brulica
la vita nell’altro emisfero, il globo
si inclina, si inchina
al nostro potere.
Ora che siamo a miglia di distanza
le nostre braccia sono troppo corte
per impedirci di sentirci soli.
Sembro più vecchio, comincio a perdere
i capelli. Dov’è che se ne vanno
i capelli che perdo, in questo mondo,
e i denti, e la vista? Invecchiamo
come i fiumi, ci essicchiamo e attorcigliamo
fino a sfociare in qualcosa.

È marzo, perfino gli uccelli
non sanno che fare di se stessi.
Chi è felice, ne sono sicuro,
conosce una cosa in più di noi
o una di meno. Il solo libro
che vorrei riscrivere sono i nostri
corpi che si uniscono:
quello è il solo linguaggio che stordisce,
che ti ferisce, ti respira dentro.
Nudi, allora sì
che avevamo una voce!

Voglio che tu mi prometta
che ci rivedremo, che mi scriverai.
Prometti che ci perderemo
dentro a quella foresta di pallide
betulle che sono le nostre gambe.

Ora riesco a sentire la tua voce –
come tutti, so che le promesse
si fanno per paura. Non si vive
separati, sei sempre qui con me.
Immagino, talvolta, che tu sia
nell’altra stanza, fino a quando piove…
Questa è allora la lettera che scrivo,
la lettera che sempre scrivo quando
mi tengono lontano da casa.
Le buste di carta sul tavolo
si sono sfondate per colpa
della pioggia e del peso delle arance.

*

Lake of Two Rivers[1]

“The camera relieves us of the burden of memory… Records in order to forget.”

                                                                        John Berger

1

– – –
Sdraiati nella stanza
del lago, nell’odore
appiccicoso di foglie appena nate.

Come la luna cade dalla terra
tu cadi nel sonno: letargia
perfetta dell’orbita.

2

Viaggiatrice di sei anni.
Mezza addormentata. L’automobile
procede misteriosa nella notte,
un ronzare attraverso campi inerti
e tortuosi.

Mio padre raccontava in questi viaggi
due storie. Una era la trama
di Lost Horizon, l’altra la sua vita.
Quella stanza in movimento, con la fioca
luce verde del cruscotto
era l’aereo con su Ronald Colman
dirottato in Tibet,
era il treno che portava mio padre
in Polonia il ’31.

Nei finestrini, volti di spettri,
una folla di cugini sconosciuti
ci circondava, stretti l’uno all’altro.

Ci scivolava in macchina la luna
dall’altezza di Grodno, dal villaggio
di Chaya Elke, dove si fermavano
gli spettri a salutare.

Sua cugina Mashka si sedeva
con loro nella stalla, la sua faccia
che scivolava per tutto il fiume Neman
nella chitarra di mio padre.
Il chiarore lunare imbalsamava
quel tentativo di ricordo.

3

Noi siamo il corpo e la memoria
di questo clima, di questo cielo
che i rami trasformano in figure
con le loro foglie e il loro sangue
corrosivo di nostalgia.
La luce quando usciamo è limitata
e puntuale come un nome.

*

I miei genitori, per anni,
fuggivano di notte, caricavano
i bambini sui sedili posteriori,
un groviglio di pigiami
ansioso di conoscere le stelle.

Guardavo la loro nuca
finché non dormivo. Al risveglio
era giorno, eravamo ad Algonquin.

Un posto da sempre familiare
come una stanza di casa.

La foto di mia madre, le sue gambe
serrate dentro l’acqua, lo sguardo
verso le colline dove stiamo
io e te – soltanto ora capisco,
l’hanno scattata prima che nascessi.

*

Foschia purpurea, colline indefinite.

A Two Rivers, vicini come rami.
i pesci si disperdono, argentei
impulsi di logica elettrica.

Uno zampillo di luce lunare
sul lago insonne, spiato
da dietro il fogliame.

Nei campi, a Sud, le verdure
si diffondono, spostano la terra.
Intanto noi sediamo, ci tiene
insieme la luce della lampada.

4

Le cose, più tempo le osservi,
più si trasformano.

L’intricata storia di mia madre,
affollata di vite di nonni
e genitori, la casa, centinaia
d’anni di storia tra loro.

L’amore domestico è semplice,
ferisce come la luce
drammatica delle nature morte.

Il cuore mantiene in sospensione
lo spirito e il corpo
finché la densità non li separa.
Sua madre alla sua età
era già precipitata.

Androgina, incinta, spaventata.
la perdita prende il posto della vita.

Nel buio del cielo notturno
gli occhi della pelle non si chiudono,
sogniamo il desiderio.

*

Il sole in dissoluzione
muta in pelle Two Rivers. Le nostre
braccia rosate, quasi fluorescenti,
ronzano nel buio accumulatosi
nella stanza come neon.

La notte trasforma il lago da liquido
a solido, lo fa mormorare:
nudi nell’inquieto tremolio
di foglie e di stelle dell’estate.
Nel potere conferito al desiderio
dalla pelle e dalla luce delle stelle,
come alla pietra la gravità,
ci uniamo nel buio della stanza –
un nastro di Moebius.

5

Non è una discendenza: ci innalziamo
dalle nostre storie.
La memoria somiglia, a sezionarla,
a un grafico geologico, un disegno
della crosta terreste. La distanza
tra conoscenza razionale o genetica
è turbata da un nome, una parola.
Chiaramente è per via del sovraccarico
di un campo instabile.

*

Sono annegata a venticinque anni
nel fiume Neman
dopo avere scoperto che la cenere
d’ossa dei forni
l’hanno scaricata lì.

Faccia alla finestra, c’è una parte
di te che ancora aspetta
che ritornino, come un genitore.

*

Adesso infine siamo una famiglia,
viviamo tutti la medesima esistenza,
al netto dei dettagli.

La foresta va in pezzi, le mie lacrime
sradicano gli alberi, li sradica

il mio amore che non precipita per terra
ma che sorge dal suolo già formato.

*

[1] Lake of Two Rivers è un lago nella riserva naturale di Algonquin, in Canada. Grodno è una città bielorussa al confine con la Polonia. Il fiume Neman scorre dalla Bielorussia al Mar Baltico, passando per la Lituania.


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